Un romanzo satirico che conferma una indubbia qualità di Gabriele Bonafede e della sua scrittura: produrre un soggetto e una scenografia pronte per un fantasmagorico “ciak” cinematografico
di Antonio Riolo
In un immaginifico gioco tra orecchio e occhio, nella scrittura di Gabriele Bonafede c’è un ritmo maggiormente orecchiabile quando descrive persone e ambienti fisici, nel contempo si apre l’occhio, meglio la coda dell’occhio di chi vedendo mette insieme il dentro e il fuori di sé.
Così, orecchio e occhio, parlano l’aulico linguaggio dell’allegoria. Tutto si fa circo, sempre più equestre, per spiccare il volo utilizzando variopinti tappeti orientaleggianti.
Nel bene e nel male si mescolano in quel trimillenario caleidoscopio che è Palermo, usanze, colori, umori, religioni, sapienze, cibo, architetture, lingue, fisionomie, contrastanti uniformità che lambiscono il mondo dei sogni e dei simboli esoterici.
Il tutto, portato all’eccesso, potrebbe fare da impasto primordiale a quella specifica ironia panormita che, a differenza di quella romana, non si fa intrappolare dal cinismo ma, nei confronti del potere costituito, potrebbe evocare un gigantesco peto, alla maniera di Paviglianiti compianto personaggio del “Cinico TV” di Ciprì e Maresco, colonna sonora di due sillabe che hanno prodotto un monito oppositivo ad ogni prevaricazione e ad ogni ingiustizia globalmente intese.
Non credo sia tanto lontana dal vero l’idea che il particolare punto di vista di Gabriele Bonafede abbia facilitato la premonizione pestifera quando, in via definitiva, nel novembre 2019 e dopo qualche mese di gestazione, è andato alle stampe il libro di cui stiamo parlando oggi, “Il Frate e la Rosa”. Un affollamento di persone, animali, piante, musiche attraversa un corteo in perenne movimento.
Il Frate e la Rosa. E la pandemia
E, in tempi pandemici, dove si affacciano condizioni coatte di “distanziamento sociale”, di mascherine più o meno chirurgiche, di decreti governativi che hanno la pretesa di catalogare e classificare ogni sfumatura delle profondità umane, irrompe una folle folla che segna pagina per pagina “Il Frate e la Rosa”.
Leggere questo libro nel contesto odierno aiuta a ri-vedere da uno specchietto retrovisore le varie stratificazioni storiche di una umanità chiassosa e inneggiante, delirante nel volere oscurare e fare sparire non la paura ma il terrore della morte.
Un affresco allegorico che conferma una indubbia qualità di Gabriele Bonafede, della sua scrittura, del resto già ampiamente presente negli “Appunti di una giovane anima – Alexandra Tomasi di Lampedusa”. La qualità cioè di impiattare un soggetto e una scenografia pronte per un fantasmagorico “ciak” cinematografico.
Tra quelli che hanno già letto “Il Frate e la Rosa” alcuni contestano un ridondante ricorso alla lingua dei tempi dell’Inquisizione che, qua e là, appesantisce il testo. E, aggiungerei, certe frasi in siciliano (per non parlare del cocciuto e ostinato riferimento al “pollinese” stretto) effettivamente, a volte, incidono sul ritmo e sul respiro della lettura.
Esilaranti, per me, i fuori campo dei titoli di alcuni telegiornali. Trovata brillante per rilanciare giganteschi peti, di cui parlavo prima, lanciati contro la insopportabile stupidità e, per certi versi, vera e propria ignoranza del ceto politico italiota dominante ai giorni nostri.
Inesorabile declino di una classe dirigente che non risparmia niente e nessuno e che ci autorizza a preconizzare tempi in cui massimo dovrà essere lo sforzo de “Il Frate” e della “Rosa” per evitare inabissamenti dalle tinte fosche e buie.