(English edition with update here)
di Elena Beninati
Israeliani e palestinesi sono due popoli servi di un unico padrone, che lottano in antitesi contro l’unica possibilità di reciproca legittimazione.
Il fallimento della diplomazia è inevitabile quando il piano del ragionamento è un discorso emotivo in cui tutte le parti hanno proprie ragioni. I contendenti non concedono nemmeno una chance ai tentativi normalizzanti e di razionalizzazione che il buon senso imporrebbe.
La guerra si autoalimenta aggiungendo voglia di potere e insensibilità al dolore. La crudeltà è la vera cifra di questo conflitto a “somma zero” nel progresso verso la pace, ma con una mostruosa quantità di vittime e un bilancio molto più pesante per i più deboli economicamente e militarmente: i palestinesi e soprattutto i bambini.
Da più parti si levano grida indignate o l’infervorarsi delle proteste contro e a favore dell’uno e dell’altro schieramento. Ma la sostanza è più truce: in questo gioco delle parti i mandatari si muovono a più livelli. Ne va dell’esistenza dell’uno e dell’altro schieramento.
Israele ha lasciato credere agli israeliani che le annessioni dopo la guerra del 1967 sarebbero state cosa facile e lecita. Ha tentato l’assorbimento della zona est di Gerusalemme, sede di ambasciate europee ma soprattutto quartiere prossimo ai siti sacri di entrambe le religioni.
Ha di fatto soppresso le elezioni palestinesi permettendo il rafforzamento di Hamas, non senza lauti finanziamenti, sotto gli occhi della comunità internazionale.
Conflitto tra israeliani e palestinesi, perché la diplomazia fallisce da decenni
Tuttavia, finché non vi saranno libere elezioni, Israele non potrà trattare da pari con Hamas, il vero movimento al potere in Palestina, e specialmente a Gaza, dal colpo di Stato del 2007. Una legittima negoziazione fra governi contrapposti può avvenire solo ad armi pari sul terreno della democrazia. E per questo non avverrà in tempi brevi.
La questione dell’occupazione è una faccenda di rancore ed umiliazione. Ciò che accade continuamente è la vessazione di un popolo fragile per ricchezza, economia, beni e mezzi, la cui unica influenza sta nella capacità di rivolta. L’associazione della parola Intifada alla Palestina diventa così la funzione strumentale alla sopravvivenza di una identità messa a dura prova.
Così, in Terra Santa, due popoli combattono agitati dallo stesso regno emotivo dell’irresponsabilità e dell’estremismo. La questione è di vita e di morte, per l’appunto. Morte che può avverarsi sia in battaglia che nel riconoscimento della pace. Accettare una soluzione comune metterebbe fine tanto all’esistenza del risentimento di Israele, che alla reazione di disobbedienza del mondo arabo, accorso in difesa delle fondamenta della libertà del popolo palestinese.
Il miraggio della pace che gli estremisti non vogliono
La pace smonterebbe secoli di idolatrie e pregiudizi, togliendo valore alla dialettica vittima-carnefice che alimenta il fuoco della passione masochista che chiamiamo guerra. Farsi male per fare del male, purché si esista. La categoria messa in discussione è proprio l’esistenza.
Si parla di tregua a buon diritto. La questione non può risolversi in un progetto massimalista come la pace, la tregua invece lascia invariate le basi del conflitto permettendone l’evoluzione.
La pacifica coabitazione fra arabi e israeliani, quando è portata avanti con ipocrisia anziché come reale processo di avvicinamento verso una pace duratura, ha messo in luce la sua stessa falla. E cioè l’incapacità di riconoscere l’altro come simile e non come nemico. Solo abbandonando la pretesa del bisogno di un nemico per affermare il diritto proprio di ognuno di essere al mondo si avvierà un reale processo di pace.
Tabella sulle vittime tratta da Al Jazeera, qui.