“Affinché un santuario possa essere eretto, un santuario deve essere ridotto in frantumi: è questa la legge” (Friedrich Nietzsche)
di Elena Beninati
Nel conflitto in corso in Medio Oriente, o più precisamente in “Terra Santa”, le parti non sono sullo stesso piano. A Gerusalemme Est, territorio occupato dalla risoluzione delle Nazioni Unite ma annessa da Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967, vivono, senza diritti, 250mila palestinesi, trasferiti nel quartiere dopo essere stati espulsi da Gerusalemme Ovest durante l’occupazione sionista del 1948.
Le case contese sono una manciata nel quartiere abitato dagli ebrei prima del 1948, ma le forze politiche di estrema destra, legate a Benjamin Netanyahu, sono decise a espellere i palestinesi da tutti e quattro i punti cardinali di Gerusalemme. La caccia all’uomo condotta dagli estremisti religiosi israeliani è impunita. La risposta attivista dei palestinesi invece è considerata terrorista.
Aver chiuso l’entrata alla Spianata delle moschee dalla porta di Damasco, l’accesso alla moschea Al Aqsa e alla Cupola della roccia, luoghi sacri dell’Islam, in pieno Ramadan è stato un primo segno.
La provocazione contro gli arabi israeliani per le strade delle città miste di Lod, Ramleh e Acri, e soprattutto l’attacco nell’antico quartiere arabo Sheikh Jarrah (che porta il nome del medico del Saladino e dai tempi del regno hashemita ospita la classe media palestinese nella zona est di Gerusalemme), ha distrutto il tentativo di pacifica coabitazione.
Israeliani di serie B
Un quinto della popolazione israeliana é araba: israeliani di serie B, con minori diritti e senza tutela. Ogni occasione di incontro è pretesto di crisi: fra ebrei e musulmani, tra sionisti e palestinesi, fra Gaza e Israele e soprattutto fra Gerusalemme Ovest ed Est, in cui vige, in un tacito assenso militare, una barriera di rancore tra cittadini dello Stato di Israele ed arabi israeliani.
L’identità dei due popoli è scandita dalle ricorrenze: Shoah per Israele, in memoria dello sterminio degli ebrei e Naqba, commemorazione dell’esodo palestinese del 1948, che ricorre il 15 maggio e si traduce in “catastrofe” della popolazione araba palestinese sotto l’occupazione sionista della propria terra. Una terra che è anche “Terra Santa” per le tre grandi religioni monoteiste: Ebraismo, Cristianesimo e Islam.
L’insaziato istinto di prevaricazione non giustifica il volere coloniale. Israele si macchia di crimini contro l’umanità: pulizia etnica, apartheid, lo sfratto di centinaia di famiglie palestinesi, o meglio la loro espulsione forzata è condannata dalle Nazioni Unite.
L’espropriazione illegittima e violenta delle case e dei territori che i coloni israeliani si arrogano il diritto di operare non è espressione del libero arbitrio ma prevaricazione. La propaganda del risentimento israeliano autorizza l’occupazione della terra abitata da un popolo persecutoriamente oppresso. Ma di chi è la terra? Contesa o occupata?
Il primo uomo che pose una pietra e affermò: da qui in poi è mio, non fu Caino, ma il più forte. Trascorsi i millenni dalla nascita delle civiltà la dinamica di interazione umana non accenna al cambiamento. Non c’è evoluzione nell’orizzonte degli impulsi, né mediazione. Oggi Israele è più forte e non molla la presa.
In Terra Santa a pagare è l’umanità
A pagare le conseguenze di questa meschinità non è il “nemico” in esame ma l’umanità. Il trauma antico riaffiora in ogni angolo della coscienza. Chi si illude nella ricerca della pace è ostracizzato, è un traditore. All’infuori della dialettica sopruso-e-reazione non v’è scampo. Nessuno nel profondo accanimento del proprio male desidera il superamento del trauma, il riconoscimento dell’alterità, dell’altro male.
Non c’è simmetria nella sproporzione fra la pretesa e la resistenza al torto… Solo a partire dalla statuizione della legge esiste diritto e torto. Ma qui la legge manca: non sono stati rispettati i Patti di Oslo, né gli Accordi di Abramo, né le misure internazionali, né tantomeno il buon senso che predilige un pacifismo, seppur mediocre, davanti all’infervorata alternativa vita o morte.
“Colui che può comandare, che è naturalmente “signore”, che si fa innanzi dispotico nell’opera e nell’atteggiamento, che cosa ha mai a che fare con i contratti!” (Nietzsche)
Meri accordi fondati su indennizzi al creditore. Per Nietzsche ha inizio con gli Ebrei la rivolta degli schiavi nella morale, una rivolta che non abbiamo sotto gli occhi perché è stata vittoriosa. La morale degli schiavi ha sempre bisogno di un mondo opposto ed esteriore, all’azione urge una reazione.
Consacrare la vendetta sotto il nome di giustizia, e rendere onore alla vendetta con il sentimento di reazione non fa che avallare l’aggressività della giustizia. “Gli ebrei, quel popolo sacerdotale che ha saputo infine prendersi soddisfazione dei propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale trasvalutazione dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale vendetta”.
Lo schiavo oggi è l’uomo qualunque che ha perso il diritto alla vita, e sibila in un’eco senza parole.
Netanyahu non vuole la pace
Israele non vuole la pace perché Netanyahu non vuole la pace. Israele non ha una vera Costituzione, non ha mai stabilito i propri confini e la linea verde imposta dalla legge internazionale nella risoluzione dell’Onu non è mai stata rispettata. Gli accordi di Oslo che hanno illuso per almeno un biennio i sostenitori della pace, salvo poi fallire sul nascere delle prime rivendicazioni faziose dai gruppi non omogenei dell’entourage politico palestinese, hanno evidenziato la mancanza di volontà nel mantenere la pace da parte dall’emergente Likud di Netanyahu.
Si da linfa alle falangi estremiste come fossero gramigne, si alimenta il risentimento infame della ex vittima che si arroga una tutela morale senza diritto, ma nessuno ferma la guerra, che è poi il vero gioco delle parti. Nessuno ha interesse a perdere la propria parte di potere ed ogni mossa è giustificata dal domino dell’irresponsabilità.
Né i leader di Al Fatah che l’Anp, pasciuta dai finanziamenti internazionali piovuti in Terra Santa a patto dell’ottemperanza degli accordi di Oslo, né l’ennesimo governo Netanyahu, che sguazza nel vuoto di potere dell’OLP e dell’insufficienza di Abu Mazen, formalmente a capo della Stato Palestinese.
Israele non permette nemmeno le elezioni, in quella parte di città i cui abitanti vivono senza Stato e in assenza di diritto, non essendo cittadini di alcun Paese. La democrazia non esiste a Gerusalemme. Il mainstream internazionale continua a guardare, mosso da istinti di convenienza tanto a destra che a manca, sia i razzi di Hamas che le bombe su Gaza.
Terra Santa e doppia morale
La porzione dell’esistenza riconosciuta è nell’esternazione della potenza, quella stessa che ha scandito la nascita della morale. Oggi la doppia morale del buono e cattivo non fa impressione. Ogni mediazione si esaurisce nello sfacelo della propria inconcludenza.
Perché non c’è movente altrettanto potente che la preminenza spirituale. Che l’idea di preminenza politica si risolva sempre in un’idea di preminenza spirituale la storia lo ricorda. Quest’officina dove si fabbricano ideali genera morte in carne e ossa. Che sia la mano potente e armata degli alleati occidentali o il grido soffocato di Allah Akbar poco importa.
Fra l’ideale e il reale passa in un soffio la vita, che lentamente sotto gli occhi ottusi di chi resta a guardare, inesorabilmente si spreca.