di Gianluca Navarrini
«L’evoluzione sociale non serve al popolo, se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero.»
Con queste parole, scandite da un coro lirico, inizia “New Frontiers”, penultima traccia de «L’arca di Noè», pubblicato nel dicembre 1982. Quel disco – scialbo successore del caleidoscopico e geniale «La voce del padrone» – mi venne regalato dai miei genitori proprio per il Natale di quell’anno. A casa mia, del resto, Franco Battiato era una celebrità già da molti anni, perché lui e mia madre erano nati e cresciuti a Riposto. E, avendo mamma solo un anno meno di Franco, avevano fatto parte della stessa comitiva giovanile.
Mia madre rievocava spesso la passione musicale del Battiato adolescente, che «stava sempre con la chitarra in mano». Poi, finito il liceo, Franco era andato a studiare a Milano; mia madre, invece, si era trasferita a Roma, dove aveva frequentato l’istituto magistrale. Ancora per qualche estate si incontrarono di nuovo a Riposto. Poi si persero di vista.
Però, dopo il grande successo di vendite de «La voce del padrone», Battiato riprese contatto con Riposto e andò a vivere – almeno l’estate – in Viale Amendola, proprio di fronte casa di mia nonna. Scendeva al mare sulla scogliera che unisce il centro di Riposto alla frazione di Torre Archirafi, utilizzando una palafitta di legno su cui ospitava i suoi amici.
Quell’estate – mi pare fosse il 1983 – in nome dell’antica amicizia con mamma, fummo anche noi ospitati un paio di volte sulla piattaforma. Ai miei occhi di ragazzino Battiato appariva alto e ossuto, con un grande naso aquilino, e dall’aspetto piuttosto maturo, nonostante non avesse ancora 40 anni. Ma era molto, molto affabile e accogliente. E senza alcun atteggiamento divistico. Era nel proprio ambiente, dove tutti lo conoscevano da sempre e dove poteva serenamente parlare in dialetto senza alcun atteggiamento intellettualistico.
L’immagine che mi resta di lui è quella di un “lanternone” (siccu e longu, come avrebbe detto mia nonna) che, uscendo dall’acqua gelida dello Ionio, comunica ai suoi compagni di vacanza che “l’acqua j’è bedda”.
Devo, a questo punto, dissentire da coloro – e sono una moltitudine – che lo elevano al rango di maestro del pensiero. La mia personale impressione – tratta soprattutto dall’ascolto dei suoi testi e delle sue interviste – è che al grande musicista, capace di spaziare dalla sperimentazione elettronica alla musica sinfonica, non corrisponda un orizzonte di pensiero altrettanto ampio o particolarmente innovativo.
L’opera di Battiato è intrisa di una spiritualità che colpisce, emoziona e meraviglia. Ma il pensiero che si dipana sotto la traccia dei suoi testi non ha la stessa luce – limpida, intensa ed abbagliante – della sua musica.
Un aspetto, questo, che non scalfisce affatto la sua genialità artistica, né sminuisce la sua capacità di donare brividi intensissimi. Ma le sue canzoni sono preziose gemme di rilucente bellezza, non trattati di filosofia. E i suoi testi migliori sono quelli impressionistici, capaci di catturare, come un’istantanea, un frammento di vita; o di recuperare dall’archivio della memoria episodi minimi dell’esistenza, apparentemente insignificanti e trascurabili: il riposo pomeridiano cullato da zanzariere e rumori di cucina, le ripetizioni estive nel cortile della maestra, la lettura a turno del giornale dal barbiere.
Comunque la si pensi, la sua arte credo non possa essere assaporata fino in fondo senza conoscere i luoghi della sua infanzia: quel reticolo di viottoli angusti; le case, basse e assolate, a ridosso del mare; il porto e il mercato del pesce; il lungomare e il Corso Italia. E i ripostesi «con le sedie, seduti per la strada, pantaloncini e canottiera, col caldo che faceva». Si tratta di una galassia di rimembranze, senza spazio e senza tempo, di un mondo lontanissimo, di un astratto immaginario che – con la scomparsa di Franco Battiato – perde il suo cantore più raffinato e suggestivo.
In copertina, il porto commerciale di Riposto negli anni ’90, oggi trasformato in porto turistico.
“Mal d’Africa” è forse una delle canzoni più evocativa per riconoscere Battiato nei luoghi della sua infanzia, adolescenza e gioventù, insieme ad altre come “Sequenze e Frequenze” e “Summer on a solitary beach”.