di Gabriele Bonafede
Con una stagione dal titolo eloquente, Sovrani e Impostori, ancora una volta il Teatro Biondo di Palermo a guida Roberto Alajmo dimostra coraggio e intraprendenza, rinnovamento e riflessione su grandi temi molto attuali. E non solo in città, anzi.
Anche se è un coraggio calcolato, visto che si affida per lo più a una serie di classici, la prospettiva con la quale è presentata e presumibilmente attuata la stagione 2017-2018 sembra comunque di grande richiamo. Anche perché propone un ampio e profondo percorso su ciò che, oggi, è sempre più una riflessione tanto politica quanto filosofica: un tema che, mi si permetti dire, è “globale”. Nel mielato e nel duro senso del termine.
Tema globale, o mondiale, e molto controverso: nel bello e nel cattivo tempo. E soprattutto a Palermo e da Palermo. Perché Sovrani e Impostori può essere visto, soprattutto a teatro, come il binomio che descrive il cerchio fiammeggiante del potere, sia esso un potere d’origine “divina” o d’origine “popolare”. E, certamente, quello d’origine rappresentativa, teatrale, mediatica, divinatoria, post-veritiera…
La stagione Sovrani e Impostori parte, non a caso, da una riflessione sull’ “auto-rappresentazione teatrale” se così si può dire, con “Bestie di scena” di Emma Dante. Una rottura del ghiaccio che è del teatro a teatro, anche qui, nel bello e nel cattivo tempo, nell’Eden terrestre come nell’inferno, anch’esso terrestre. Ci saranno dibattiti accesi, è più certo che prevedibile. Confermando, dunque, un interesse sul palcoscenico attrezzato ad “ariete” per la conseguente ipotesi di rilancio.
Ma non è che l’inizio. Con “Il secondo figlio di Dio. Vita e morte di David Lazzaretti” (di Simone Cristicchi, regia di Antonio Calenda) ci si tufferà a capofitto nella storia di un impostore “buono” (qualche malvagio direbbe “buonista”) per eccellenza. E su un “sovrano” che è al di sopra di tutti nel vero senso del concetto. È la storia di un utopista, David Lazzaretti, che ha cercato di unire in concreto cristianesimo e proto-socialismo nella seconda metà del secolo XIX, con risultati e implicazioni che hanno attratto il pensiero di massimi filosofi contemporanei.
Non meno azzeccati si preannunciano Enrico IV, un classico dei classici di Pirandello (regia di Carlo Cecchi) e Re Lear di William Shakespeare (regia e adattamento di Giorgio Barberio Corsetti) che chiuderanno il 2017 in periodo natalizio, riportando a Palermo due pièce che sono un concentrato del rapporto tra falsità e realtà, tra umorismo e dramma, nel percorso da forma a tragedia, a potere, a impostura e imposizione. Qui si chiude, quindi, un primo cerchio o per lo meno una prima “gestalt” di programma, oltre che di scena.
Il 2018, invece, si aprirà aprendo un’altra porta, mi si consenta il bisticcio, attraverso “Le Cirque Invisible”, con la benvenuta presenza a Palermo di Victoria Chaplin insieme a Jean-Batispte Thierrée. Rimescolamento di carte dunque. E continuando un discorso su circo a teatro che è stato voluto e pure apprezzato già in precedenti occasioni sul palcoscenico del Biondo. Genialità e fantasia, dunque, dove l’impostore diventa più palesemente un eroe (e un’eroina) del bianco e del nero in acrobazia perenne, e per questo immortale.
Dicevamo un percorso ampio, ma anche profondo, e non è un ossimoro. Lo si capisce con la scelta dei due spettacoli successivi: “Il giuramento” e “Tamerlano”. Il primo, messo in scena da Ninni Bruschetta sul testo di Claudio Fava, narra di impostura e imposizione per antonomasia: la forzata adesione a una dittatura, all’occasione italiana e fascista, prescritta violentemente ai docenti universitari nel 1931. Il rimando a ciò che succede oggi nella Turchia di Erdogan (e altrove) è praticamente immediato. L’atmosfera e il testo scelto può mettere in luce la decadenza culturale. Quella del cancellare, di fatto, il dibattito universitario in un intero Paese. Si preannuncia, dunque, quanto mai azzeccata geograficamente, temporalmente e concettualmente.
Il secondo, che vede il ritorno di Luigi Lo Cascio al Biondo insieme a Vincenzo Pirrotta sul testo di Marlowe, va anche più avanti. Qui, con Tamerlano, va in scena il potere assoluto, di crudele e incontrastata brutalità. Lo spettacolo ha tutto per raggiungere l’apice dell’odierna tragedia, con un dipinto sulla mongolica orda d’oro e di ferro non dissimile ai medievali dittatori di oggi. E con tutte le conseguenze della supposta “Sovranità” (o dobbiamo dire “sovranismo”?), fin troppo propagandata nel mondo italiano e mondiale presente. Persino in sedicenti ambiti “filosofici” e “culturali”.
Fermi tutti. Dopo queste due proposte praticamente irrinunciabili, si torna al classico dei classici, nell’animalesca umanità del potere, intrisa di coinvolgimento sentimentale tanto pratico quanto familiare: Medea, e il suo amore morto di morte odiata e predicata, anche nella progenie. La regia è di Luca Ronconi. A Palermo, città autolesionista per carattere, Medea è particolarmente voluta a teatro negli ultimi anni. Un segno dei tempi, forse.
Medea e Palermo… Il passo è breve per arrivare a quella parola che tutti ci “invidiano”: mafia. Di mafia si muore in un’orgia continua di autolesionismo sociale conclamato. Palermo ne è stata, e ne è tuttavia, la piazza da patibolo, con o senza sangue caldo. E c’è molto da dire sugli ondeggiamenti d’interi strati di antimafia, al vertice o meno.
In “Dieci storie proprio così – Terzo atto” (regia di Giulia Minoli) sembra che si potrà vedere e capire chi sfida quel “patibolo” dello “stato nello Stato”. Ma soprattutto la lotta, che spesso vince, del tessuto d’antimafia di base, nei confronti dell’autolesionismo sociale quale è la mafia. Sovrani e Impostori? Il sinonimo non può che essere, a Palermo ma anche altrove, esattamente e ancora una volta, purtroppo, mafia. Le storie su come persone comuni la combattono e la vincono è, in qualche modo, una luce in fondo a un tunnel, mentre ci si avvicinerà alla primavera in un anno, il 2018, che vedrà la città siciliana in attività quale Capitale italiana della Cultura.
Da qui, e siamo arrivati alla primavera piena, ci sono altri tre spettacoli programmati in Sala Grande che apparentemente hanno meno a che fare con Sovrani e Impostori. Ma in realtà ne hanno, eccome. Sono comunque spettacoli che si annunciano molto diversi da loro. Il primo è “Quello che non ho”, dove il titolo vuol dire soprattutto De André: uno che si è imposto di fronte a qualsiasi impostore come di fronte a qualsiasi sovrano. Lo mette in scena Giorgio Gallione con Neri Marcoré e preannuncia pasoliniane profezie a tutto campo.
Il secondo è un altro classico del teatro contemporaneo, “Aspettando Godot”, e sarà Maurizio Scaparro a mettere in scena il capolavoro di Beckett in una prospettiva che, dalle notizie ricevute, sembra voler sondare gli aspetti più culturali di sovranità e imposizione, nell’Europa delle Culture, in una Capitale della Cultura, sia pure solo italiana e non europea.
Anche qui, il passo rimane breve per arrivare a “Occident Express”, dove l’impostura è la peste di oggi: il rifiuto a dare rifugio ai rifugiati. Lo spettacolo di Stefano Massini (a cura di Enrico Fink e Ottavia Piccolo) promette un impatto sconvolgente nel narrare l’incredibile storia dell’irachena Haifa che, nonostante gli abbiano predetto di rimanere ferma nella sua terra, farà un lungo e spaventoso viaggio attraverso la temibile “rotta dei Balcani” per “precipitare”, infine e in qualche modo, lassù: tra i ghiacci del Baltico. Storia vera.
Si chiude tornando a Pirandello con Liolà, riadattato da Moni Ovadia e messo in scena con Mario Incudine e Sebastiano Lo Monaco. Qui l’impostore è trattato a commedia, come da prima parte del Fu Mattia Pascal, concludendo il percorso su Sovrani e Impostori su un piano doppiamente familiare. E decisamente più giocoso.
Quanto sopra attiene al programma in Sala Grande. Ma c’è anche la Sala Strehler, non ancora Sala Franco Scaldati. Spesso, in passato, in Sala Strehler si è vista maggiore qualità rispetto alla Sala Grande del Teatro Biondo, forse grazie a un ambiente più raccolto e vicino tra spettatori e teatrante. Ma, azzardiamo, anche per una maggiore predisposizione alla sperimentazione, che è la linfa vera del teatro.
Torniamo dunque a ottobre, e torniamo a Pirandello. Va detto che quest’anno si celebra 150mo dalla nascita del grande drammaturgo siciliano. Si partirà dunque con un’altra “pirandellata” d’eccellenza: “Centomila, uno e nessuno” direttamente dalla rappresentazione estiva dello stesso spettacolo alle Orestiadi 2017, con testo e regia di Giuseppe Argirò. Sovrano e Impostore sarebbe, in questo caso, lo stesso Pirandello. Perché lo spettacolo si muove intorno alla vita personale di chi ha dedicato una vita teatrale al rapporto tra forma e realtà. Oggi tema principe su una Palermo scapestrata quanto culturalmente adornata.
Dopodiché, alla Sala Strehler, ci sarà una bella serie di spettacoli come Galois di Paolo Giordano, La sonata a Kreutzer di Leone Tolstoj (adattamento e regia di Alvaro Piccardi), Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata, Guerrin Meschino (regia di Carlo Quartucci), Tandem (di Sabino Civilieri e Manuela Lo Sicco), C’era e c’era Giuseppe Schiera, di Salvo Licata (messo in scena da Enrico Stassi con Salvo Piparo e Costanza Licata), Acqua di colonia, di Elvira Frossini e Daniele Timpano, Goliarda music-hall, di Paola Pace, Fratelli dal romanzo di Carmelo Samonà e messo in scena da Claudio Collovà, De revolutionibus, da due operette di Giacomo Leopardi, (messo in scena da Giuseppe Carulla e Cristiana Minasi), La veglia di Rosario Palazzolo (con Filippo Luna), Milite ignoto, quindicidiciotto, di e con Mario Perrotta, Mozart, Il sogno di un clown (di e con Giuseppe Cederna), per chiudere con La scortecata, (liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile) con testo e regia di Emma Dante.
Sarebbe lungo commentare ognuno di questi spettacoli al ridotto del Biondo. Ma è importante notare che il ventaglio di interpretazioni lascia presupporre ulteriori approfondimenti e diramazioni dalla piattaforma principale di Sovrani e Impostori. Con la prospettiva d’aumentare in qualche modo l’engrais teatrale sulla terra di Palermo, possibilmente quale finestra sul mondo e sul teatro. E lasciando liberi di galoppare alcuni cavalli di razza.
Cum grano salis, si capisce.
In copertina, Simone Cristicchi in Il secondo figlio di Dio.
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