di Giovanni Rosciglione
Non sono uno storico della sinistra in Sicilia: ho solo potuto dare un’occhiata dal di dentro. È per questo che trovo questa polemica sull’assenza del simbolo PD alle elezioni comunali di Palermo assolutamente inutile.
Ora, se il Ministro Orlando la utilizza come polemica elettorale per le primarie posso avere qualche riserva sul metodo, ma sul merito capisco che, non sapendo nulla della Sicilia, si accoda.
Ma se è Emanuele Macaluso a lanciarsi in una intemerata filippica contro la federazione di Palermo per la débâcle di orgoglio identitario resto perplesso.
Macaluso, che considero un punto di riferimento alto di cultura politica, intanto sa bene che il PCI in Sicilia è stato sempre debole e con una scarsa identità ideologica: fallì il tentativo di sostituire alla classe operaia, quella dei contadini come base popolare di riferimento. La mitica riforma agraria si trasformò in un fallimento economico di settore (non poteva essere altrimenti) e i nuovi piccoli proprietari ritornarono braccianti o emigrarono a Torino.
Tranne le antiche elezioni del 1946, e il famoso biennio 1975-76 la sinistra fu sempre minoritaria, soprattutto nelle grandi città.
Oltre alle poche aree industriali con un elettorato operaio numericamente ridotto, il PCI in Sicilia aveva il suo elettorato nel pubblico impiego (soprattutto insegnanti) e negli intellettuali. La Sicilia non ha mai avuto (e non ha ancora) una borghesia progressista e aperta, che potesse sostenere una forza radicale di vero cambiamento e di uscita dalle condizioni di vassallaggio blindate dallo Statuto Speciale della Regione.
Quanto alla simbologia, dal Blocco del Popolo, dalla lista Garibaldi sino a quella di oggi per Palermo, ricordo decine di simboli. Parfticolare e persino di successo, la “lista Ippari” molti decenni fa. Il problema, o il meglio, era la direzione di marcia e i contenuti programmatici.
I pochi che mi onorano della loro attenzione, sanno che – pur essendo un estimatore di Renzi e del suo governo – ho criticato pubblicamente e senza sconti la scelta che il Partito Democratico ha fatto a Palermo. Ma non per il simbolo. Piuttosto, per la incapacità della sinistra riformista di avere un proprio candidato, di avere il coraggio di dichiarare finita l’epoca di Orlando e del populismo gentile che dopo 33 anni di Sindacatura diretta e indiretta lascia la città come la peggio amministrata d’Italia.
Continuo a sostenere che questa è la strada che un partito riformista nuovo e moderno deve percorrere.
Ma non c’è stato nulla da fare. Non c’è stata neanche la ricerca di un possibile candidato e di un programma innovativo. Niente.
Come niente c’è stato da quando esiste l’elezione diretta dei sindaci. Mai. Da un quarto di secolo. E nessun Macaluso d’Italia ha mai avuto nulla da dire.
Bisogna sapere che quaggiù non ci sono renziani e antirenziani. Semplicemente gli elementi di novità che la stessa nascita del PD ha affermato, in Sicilia vengono visti con sospetto. Più che una svolta di contenuti e forme per un nuovo partito, qui (con qualche piccola e coraggiosa eccezione) c’è stata una occupazione da parte del vecchio ed eterno ceto politico, che vive agiatamente da saprofita nelle pieghe golose di un pubblico erario sempre più eroso.
È onesto dire che la disattenzione verso il Sud e l’approssimazione sulla struttura organizzativa del nuovo partito è uno dei punti debole di PD di Renzi, che tuttavia resta l’unico baluardo politico per una svolta di progresso del nostro paese.
Ma la situazione è tanto grave che dovrebbe essere graziata dalle polemichette interne. Aiutateci a cambiare davvero, aiutateci a crescere come rappresentati della parte migliore della nostra terra. Partendo dai giovani.
E, tanto per capire quanto è grave, lo vediamo già dall’aria che tira per le prossime elezioni regionali dove non partiti si scontreranno, ma tribù. E neanche delle più progredite.