di Pasquale Hamel
Il lunedì dell’Angelo del 1282, il popolo palermitano si sollevò contro Carlo d’Angiò, il sovrano che, dopo l’investitura pontificia con la quale veniva nominato re di Sicilia, aveva sconfitto gli svevi di Manfredi e si era insediato sul trono ch’era appartenuto alla dinastia normanna.
In pochissimo tempo la rivolta, iniziata a Palermo, si era estesa a tutto il territorio dell’isola cogliendo di sorpresa le armate angioine che ne controllavano le principali piazzeforti.
La rivolta, alla cui guida si posero alcuni nobili siciliani, se da un lato consentì di mettere fine a quella che è stata presentata agli occhi della storia come un’odiosa dominazione, dall’altro mostrò a quali livelli di brutalità possa arrivare in simili frangenti l’uomo. Soprattutto Palermo, in quei terribili giorni, divenne teatro di una carneficina che, forse, non ebbe pari nella storia siciliana.
Vennero infatti massacrati non solo i nemici che cadevano nelle mani dei rivoltosi, ma anche le donne e perfino i bambini e quanti venivano indicati come collaboratori o, semplicemente, amici dei francesi. Non furono risparmiati gli ecclesiastici e qualche convento venne violato e molte suore furono abusate prima di essere uccise. Il sangue lordava le strade della città e i cadaveri, orrendamente mutilati, venivano abbandonati a marcire al sole.
Uno spettacolo indegno che una storiografia partigiana ha cancellato dalla memoria collettiva dei siciliani, e non solo. Di questa terribile pagina infatti, la storiografia ci ha consegnato una versione enfatica, quella di un popolo oppresso, da quella che Dante definì “mala signoria”, che trova il coraggio e la forza di ribellarsi al tiranno per reclamare la propria dignità. Una versione che ha riempito di orgoglio molte generazioni e che è stata modello per l’epopea risorgimentale tanto che Giuseppe Verdi ne trasse ispirazione per una delle sue più importanti opere e Francesco Hayez realizzò tre grandi quadri che simbolizzano la lotta contro lo straniero oppressore.
Ma al di là della versione che ne ha dato lo storico siciliano Michele Amari, versione giustificata dal clima in cui scrisse il suo La guerra del Vespro, e di quella di Steven Runciman, che con il suo I vespri siciliani intendeva evidenziare quella che considerava “la storia del graduale suicidio della più grandiosa concezione del medioevo: la monarchia universale del papato”, è opportuno chiedersi che cosa fu in realtà quella rivolta.
Trascurando le opinioni dello storico Gibbon, che secondo Amari è stato tratto in errore, e dello stesso Voltaire che, come affermava lo stesso storico siciliano, sorrideva dell’enfasi con cui era stata consegnata alla storia di quella rivolta, è ormai abbastanza chiaro che sia necessario ridimensionare il significato del moto popolare non avendo preoccupazione di indicare nella rivolta una congiura ordita dai baroni ai danni di Carlo d’Angiò che aveva osato, fra l’altro, mettere in discussione il loro strapotere.
Quella congiura non sarebbe altro che una tappa, preceduta dalle lotte che la nobiltà aveva suscitato contro i re Normanni, dello scontro fra i feudatari ed il potere legittimo. Se, in effetti, gli Angioini fecero pesare la loro presenza e commisero taluni errori gravissimi, come lo spostamento della capitale da Palermo a Napoli, non si può dire che fossero stati più esosi e arroganti degli svevi che li avevano preceduti. Si potrebbe dire che furono invece campioni della legalità, termine che anche oggi fa storcere il naso a molti siciliani. Pretendevano, infatti, che i baroni rispettassero le regole, questo sì , ma al di là di questo non andavano. Ma tanto bastava per suscitare l’odio di chi pretendeva di continuare a fare il bello e il cattivo tempo.
Quella fu dunque una congiura del baronato che pretendeva di liberarsi dal nuovo padrone illudendo il popolo, come d’altra parte hanno sempre fatto i potenti in Sicilia. In questo contesto non è però da trascurare il quadro geopolitico mediterraneo contraddistinto dalla potenza marinara emergente degli aragonesi e dalla cronica debolezza dell’impero d’Oriente.
Bisanzio, in particolare, guardava con timore il crescere della potenza angioina benedetta dalla corte romana; Carlo d’Angiò aveva chiaramente manifestato le proprie mire egemoniche nei confronti di Costantinopoli. L’aveva già anticipato qualche anno prima ma era stato fermato da una opportuna, almeno per i Bizantini, tempesta che aveva distrutto gran parte della sua flotta. Ma ora niente sembrava opporsi al grande balzo a cui l’impero orientale non poteva contrapporre difese adeguate.
Ed allora, la congiura. Bisanzio soffiava sui malumori dei baroni siciliani, li sosteneva perfino economicamente. Si diceva che casse d’oro fossero arrivate in Sicilia per finanziare la rivolta. Una grande rivolta popolare in Sicilia avrebbe, infatti, distolto l’attenzione del sovrano angioino dando modo a Bisanzio di sottrarsi ad un destino che sembrava irrimediabilmente segnato. Questa in poche battute la storia vera, una rivolta che l’impostura storiografica ha tramandato per quello che non è stata.
Quella rivolta ha avuto, infatti, per la Sicilia, risvolti tragici. Che, come scriveva Croce, “cadde di un brutale e fazioso baronaggio”, e le ha regalato il frutto amaro di una guerra che si è protratta per decenni col risultato della devastazione del territorio e l’immiserimento delle popolazioni. Insomma un dramma di cui ancora oggi l’isola porta i segni.
In copertina: Di Francesco Hayez – The Yorck Project: 10.000 Meisterwerke der Malerei. DVD-ROM, 2002. ISBN 3936122202. Distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=152595