di Pasquale Hamel
17 febbraio 1600, in Piazza Campo dei Fiori a Roma, veniva arso vivo il frate domenicano Giordano Bruno; si concludeva in modo così drammatico la vita di un intellettuale irrequieto, di vastissima cultura che in tutta la sua vita non si era stancato mai di perseguire la sua autonomia di pensiero e di sfidare la “verità” raccontata e accettata dogmaticamente.
E proprio quell’atto vergognoso e quella disumana crudeltà, hanno fatto di Bruno il martire della libertà di pensiero oggi universalmente riconosciuto. Si può, dunque, dire che con quel sacrificio estremo, che con tanta ferocia i suoi nemici gli hanno voluto infliggere, il filosofo nolano abbia raggiunto il suo obiettivo, quello di essere riferimento universale della lotta contro l’oscurantismo e per la libertà.
Se infatti, almeno di fronte agli inquisitori di Venezia ai quali per vendetta era stato consegnato, egli tentò di allontanare la condanna accettando l’umiliazione dell’abiura non così avvenne davanti agli inquisitori romani che pretesero l’estradizione. Per tutto il lungo periodo che precedette la sentenza, mentre fioccavano delazioni nei suoi confronti, egli tenne un comportamento ondivago, in alcuni momenti si dichiarò infatti disposto all’abiura, in altri momenti prevalse l’orgoglio e la legittima ira per l’ingiustizia che subiva. E’ pur vero che, dalla lettura degli atti viene fuori un certo imbarazzo da parte dei carnefici – sia il cardinale Bellarmino che lo stesso Clemente VIII, che non aveva approvato la richiesta di procedere alla tortura dell’eretico, sembrerebbero stati propensi a chiudere la vicenda con una sommaria abiura – e, proprio questo imbarazzo, avrebbe consentito a Giordano Bruno di salvarsi.
Ma quelle perplessità di Clemente e Bellarmino furono stroncate da un memoriale nel quale il filosofo eretico ribadiva le sue tesi che, lui stesso, faceva pervenire al Papa. Forse proprio in quel momento Bruno si era reso conto del significato epocale che avrebbe avuto il suo martirio nella lotta per la libertà del pensiero e per questo avrebbe maturato di arrivare fino in fondo, alla sentenza di condanna.
E quel giorno arrivò e fu l’8 febbraio del 1600 quando, a lui inginocchiato, fu letta la sentenza che lo riconosceva colpevole di eresia. Ai giudici, dopo avere ascoltato la sentenza, pare avesse pronunciato la seguente frase: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam.” Ed in effetti Bruno aveva colto nel segno, forse nelle menti di quei giudici si era insinuata la preoccupazione per le conseguenze che quella terribile vicenda avrebbe prodotto per l’immagine della Chiesa del tempo. Ma quelle preoccupazioni non furono tuttavia sufficienti a farli ritornare sulle loro decisioni.
Questa la sintesi della vicenda che induce una nostra riflessione oggi, in un tempo in cui il mondo è radicalmente cambiato, in cui la Chiesa è, diversamente d’allora, spesso all’avanguardia nella difesa dei diritti della persona umana, in cui la libertà di pensiero, almeno nel nostro Occidente, viene considerata il diritto dei diritti.
Se vittima illustre di quei secoli dell’intolleranza fu Giordano Bruno altrettanto vittima è stato allora il messaggio di Cristo. “Non uccidere”, quinto Comandamento del Decalogo che impone il rispetto della vita come principio fondamentale, quel principio la furia inquisitrice aveva violato palesemente deturpando il volto della Chiesa. “Non opporti al malvagio, se uno ti percuote la guancia destra, porgi anche l’altra guancia”, le parole di Gesù sono chiare, non danno luogo ad equivoci, è la mitezza, la forza della testimonianza, la parola, la ragione, queste sono le armi – ma parlare di armi appare in questo caso presso che blasfemo – un controsenso, che il Nazareno indica come comportamento e come strada da seguire. Che c’entravano dunque i roghi, che c’entravano le torture, che c’entravano le imposizioni che accompagnate dalla violenza che, non solo durante quel famigerato tempo ma anche il altre brutte stagioni, sono state inflitte all’umanità in nome di Cristo?
Ecco dunque la vittima, quel Cristo della pace, dell’amore, del dialogo, che viene ancora una volta crocifisso e proprio da chi avrebbe dovuto incarnare, nella storia, il suo messaggio d’amore. Domande che inquietano a cui, anche la risposta dolente di Giovanni Paolo II, che a proposito della vicenda Bruno, ebbe ad affermare che “questo triste episodio della storia cristiana moderna … costituisce oggi per la Chiesa motivo di profondo rammarico e di dolore”, non riesce sicuramente a quietare.