di Pasquale Hamel
Scrive Sergio Romano, a proposito della Grande guerra, una grande verità che l’enfasi patriottarda ha coperto, e cioè che “Austria e Germania [prima della scelta a favore dell’Intesa] offrirono Trento e Trieste all’Italia in cambio della neutralità: un conflitto quindi inutile, se non per gli interessi del grande capitale”.
Aggiungo io che, oltre che inutile, quella Guerra fu una vergognosa carneficina, un olocausto di vite umane immolato, appunto, sull’altare dei signori della guerra. Furono, infatti, oltre seicentomila gli italiani morti e molti di più furono gli invalidi, e il contributo di sangue dei siciliani ammontò a circa 60 mila uomini.
Anche gli empedoclini non sfuggirono alla mattanza, lo testimoniano le decine e decine di nomi scolpiti nelle lapidi di marmo che adornano le quattro facciate del basamento del locale monumento ai caduti.
Fra quei nomi, in particolare ve ne sono due, vittime delle conseguenze della guerra. Due fratelli, figli di uno stimabile farmacista, entrambi ufficiali giovani di complemento, richiamati alle armi e scaraventati, come tanti altri, nelle tragiche trincee. Nelle quali, per quattro anni, marcirono centinaia di migliaia di uomini in condizioni disumane che, in qualche caso, sconvolsero le loro menti.
È quanto accadde ai due fratelli. I due, conclusa la guerra, poterono tornare sani e salvi in paese ma portandosi dietro l’orrore della guerra. Del loro ritorno, visto che tanti altri coetanei non ce l’avevano fatta, furono tutti contenti. Nessuno si accorse che nelle loro menti si celava qualcosa di orrendo, mi riferisco alle angosce che li tormentavano e i segni evidenti di disquilibrio.
Di notte erano infatti preda di incubi e molto spesso gridavano frasi sconnesse. Quei segni, forse anche per paura di prendere atto di una verità non gradita, vennero però sottovalutati, considerati effetto di stanchezza e delle sofferenze patite. Così come venne prestata poca attenzione ad una sacca che avevano portato dal fronte e che tenevano sempre vicina impedendo a chiunque di curiosarvi dentro.
Quella sacca, i due fratelli, l’avevano collocata sotto il letto della camera che condividevano e quando qualcuno in casa ne chiedeva, rispondevano evasivamente e con grande fastidio. Ogni giorno, qualche ora prima dell’ora di pranzo, i due si chiudevano nella camera ed iniziava un oscuro balletto fatto di rincorse, di grida e di rumore di ferraglia.
Tutto questo durò per settimane e fino al giorno in cui accadde il disastro. Quel giorno, intorno allora di pranzo, i due fratelli si chiusero ancora una volta in camera per dar corpo al loro rituale giornaliero. Quella volta, però, un loro fratello più piccolo della numerosa famiglia, incuriosito sbirciò dal buco della serratura riuscendo a vedere cosa accedeva dentro, e fu un attimo prima del disastro.
La sorpresa fu il vedere che i due sembravano giocare con oggetti strani che sicuramente non erano bocce. Proprio in quell’istante fu l’apocalisse. Una tremenda deflagrazione e poi un’altra ancora, la porta fu scagliata all’esterno e con essa il giovane che si era arrischiato a sbirciare dal buco della serratura. Non erano bocce, erano bombe a mano.
Dei due fratelli pazzi, che avevano portato dal fronte le bombe a mano utilizzate per bocce rimase ben poco. La casa fu ridotta in rovine ed il bambino perse un occhio. L’orrore di quanto accaduto, che per anni fece parte della memoria nera del Paese, sconvolse la famiglia.
L’unica consolazione, se così di può dire, per chi sopravvisse fu quella che fossero considerati, nonostante tutto, vittime anche loro di quella maledetta guerra. E dunque degni di avere inciso il proprio nome in una di quelle lapidi del basamento del monumento ai caduti.