di Daniele Billitteri
C’era una volta un posto dove vivevano tanti teatri. Ma sarebbe più giusto dire che vivacchiavano. Grandi e piccoli cominciarono ad ammalarsi e molti importanti professori furono chiamati a pronunciarsi su questa misteriosa malattia.
I sintomi erano di una sensazione come di svuotamento, una strisciante depressione con frequenti attacchi di panico di fronte le platee vuote di pubblico. Fu così che un professore più bravo degli altri spiegò che tutti pensavano che il pubblico fosse il figlio dell’arte teatrale. Che era quest’arte che aveva partorito il pubblico. Il professorone spiegò invece che era tutto il contrario. Era l’arte teatrale a sentirsi figlia del pubblico, una grande madre, tuttavia, ultimamente molto distratta. Da cosa? Dalla Grande Bruttezza, dalla Crisi, dalla Tv, dall’ansia e dal disagio.
E le platee diventano parcheggi che si svuotano quando dovrebbero riempirsi. E sul palcoscenico non rimane che l’addetta alle pulizie che, ma guarda un po’, si muove in quel grande spazio e lo sente tutto suo, lo sente prendere vita, popolarsi di recitazione, di musica, di danza. Sogni di una ragazza con la scopa fin quando non irrompe una compagnia di pazzi scappati dal manicomio che hanno preso la Centouno (linea urbana strapuntinata) e hanno suonato il campanello della fermata a richiesta. Tutti dentro il teatro, popolo bislacco e colorato.
No, non vi preoccupate. Non sono personaggi in cerca d’autore. Non c’è aristocrazia. Sono pazzi, tutti fuori come i gerani dell’infiorata di Bressanone. Spuntano dai palchi e cantano la Traviata, ballano, ridono, imperversano, danzano. Sembra una macchina che produce ologrammi ma che va a ruota libera. Un ballerino in calzamaglia diventa una majorette, una minuscola “cappellaia matta” diventa Samu la samurai.
Ma quando i pazzi sono di scena la gente comincia a piangere sulla propria distratta saggezza, comincia a chiedersi se per caso non ha avuto finora un tappo di cerume che gli acciunca l’udito, porta le mani agli occhi convinta di avere ancora addosso gli occhiali da sole. E forse qualcuno riprende ad andare. Qualche ragazzino comincia a chiedere alla mamma: mi porti a vedere i pazzi? Come dove? Al teatro…
Quando i pazzi sono di scena la fantasia diventa un buco nero al contrario, un vulcano galattico in piena eruzione senza bisogno di erudizione. Perché i pazzi, come pensavano gli Indiani d’America, appartengono al Sacro Spirito che li pervade. Per questo sono intoccabili. Al contrario, sono proprio loro che ti toccano: il cuore, la testa, la corda pazza.
Tutto questo ho visto ieri sera al Biondo. Una specie di “guerra lampo” combattuta in dieci giorni e, per quanto posso dire, vinta alla grande. Elisa Parrinello ha comandato la truppa ma più che un generale sembrava il Pifferaio Magico ma i suoi topolini non potevano sperare in una meta migliore e non certo il baratro della favola.
Già perché dimenticavo di dirvi che tutto ciò è stato messo su da una trentina di ragazzini di età compresa tra i 7 e i 20 anni. Tutti primi al traguardo del mio cuore e non solo del mio.
Ci sarebbe da spendere fiumi di parole sugli splendidi costumi, sulle musiche azzeccate, sulle performance individuali che, a turno, sono toccate a tutti come se perfino al teatro ci si preoccupasse della democrazia. Effetto piffero anche questo.
Non voglio fare nomi perché ho un’età e sono certo che ne dimenticherei qualcuno. D’altra parte mi porto dentro l’insieme e mi rimane la Grande Bellezza, la Grande Tenerezza, La Grande Sapienza dei questi piccoli pixel. Elisa ha fatto la partita. Ma ha barato perché ha giocato con un mazzo di carte truccato: c’erano solo assi.
very important!