di Pasquale Hamel
Certo, non erano i tempi nostri. Non si sgomitava per farsi avanti, magari dimenticando che la gomitata poteva anche fare male, ma c’era anche chi se “la tirava” e metteva quella maschera, di pirandelliana memoria, che il contesto vissuto propone di mettersi in faccia.
“Ciccio Gubbio”, il nome stesso è un richiamo pirandelliano, era un uomo all’antica che non amava le maschere. Era quello che sentiva di essere: un figlio della sua terra, semplice e lontano dai sofismi propri di quelli che esercitavano la sua professione: uno fra tanti, si sarebbe potuto dire.
Ricordo che indossava un pesante cappottone di lana grezza e che amava usare il dialetto siciliano impreziosito troppo spesso da termini arcaici, nessuno avrebbe mai indovinato che dietro quella figura trasandata si potesse nascondere un personaggio di tutto rispetto.
Don Ciccio, il “Don” quasi lo pretendeva, era “niente poco di meno che” un importante magistrato della Repubblica, un uomo che contava molto e la cui parola pesava tanto quanto l’oro. Di sue perfomance, sapide di ironia, se ne raccontavano tante e le narrazioni che lo riguardavano erano sempre riscaldate dall’affetto che chi lo aveva conosciuto sentiva di dovergli portare. Di aneddoti che lo riguardavano ve ne sono tanti fra questi ne scelgo una che credo valga più di tutti gli altri messi assieme.
Don Ciccio amava molto la tazzina di caffè e, per nulla al mondo, al primo mattino, avrebbe rinunciato ad essa. Gli piaceva il caffè del bar, lo trovava adatto al suo gusto. Avrebbe potuto prenderlo al bar del tribunale ma quello era quasi sempre affollato da colleghi e da avvocati che, appena lo vedevano, lo assediavano con richieste di vario genere o si azzuffavano per pagargli la consumazione. Tanto bastava perché, prima di arrivare in ufficio, scendesse alla Marina e si fermasse in uno dei tanti caffè che si aprivano lungo la strada principale; peraltro allora non c’era l’uso delle scorte.
Proprio in uno di questi caffè, a quell’ora non affollato, lo serviva direttamente al tavolo il proprietario, un ometto dal viso tondo sul quale spiccavano due occhietti di un azzurro inquietante. Proprio in una di queste occasioni Don Ciccio, che sapeva leggere nel volto della gente, si rese subito conto che il piccolo barista sembrava volesse dirgli qualcosa ma che non ne aveva il coraggio. Decise allora di incoraggiarlo: “Don Pé, c’è cosa?”. Che, per chi non è siciliano e non ha nemmeno letto Camilleri, vuol dire “Cosa ti è successo? Dimmi pure”.
Quelle parole ebbero l’effetto di sbloccare i freni inibitori del barista. E così, come un torrente in piena, il Don Pé spiegò che le sue angosce erano dettate dalla rabbia per un sopruso che da qualche tempo subiva. Raccontò infatti che, da alcune settimane, un personaggio importante la domenica si presentava al bar, faceva il pieno di dolci e se ne andava senza pagare come se, quella sorta di pizzo, gli fosse dovuto per rispetto alla funzione. Don Ciccio ascoltò in silenzio e, mentre il suo interlocutore parlava, già pensava a come aiutare il poveraccio. E infatti, quando il barista ebbe finito di parlare aveva pronto il suo piano.
Fu così che la domenica successiva, in abiti più dimessi del solito e con una coppola calcata sulla fronte invece dell’inseparabile cappello, Don Ciccio si trovò al bar in attesa dello scroccone che, puntuale come un orologio svizzero si presentò. E, con aria arrogante, ordinò una montagna di dolci. Mentre il cameriere confezionava le guantiere, eludendo l’attenzione dello scroccone, Don Ciccio raggiunse la cassa e si sostituì al cassiere. Lo scroccone intanto s’impadroniva del pacco e si dirigeva, senza nemmeno salutare verso la porta.
“A tia!”. Che, sempre per chi non è siciliano, vuol dire “Ehi tu!”. La voce di don Ciccio risuonò nel locale. Sorpreso, lo scroccone si girò con lo sguardo feroce verso il cassiere. “Tu, a’ pagari!” Proseguì Don Ciccio. (Ovviamente a’ è l’imperativo del verbo dovere: devi).
Immaginiamoci l’incredulità che seguì quell’intimazione. Come si permetteva quel vecchio alla cassa di richiamarlo? “Dice a me?”. “Si, a tia, a’ pagari i cosi duci ca pigliasti!”
La voce di Don Ciccio era calma mentre il suo interlocutore rosso di rabbia si lanciava con atteggiamento aggressivo verso la cassa. “Come si permette, gran cafone, lei non sa chi sono io!” Lo scroccone faceva la sua parte. “E cu sinni futti cu è! Ca’ ava a pagari!” “Io…io…”
Sconcertato da quelle parole, lo scroccone non sapeva che dire, gli uscì solo un “Te la farò pagare!”. “Ah, sì? ‘Ntantu tu paga, po’ dammi una taliata e va ‘ff ‘nculu”. (Questo ci asteniamo dal tradurlo).
Quella “taliata”, o sguardo, il nostro bellimbusto non l’avrebbe più dimenticata, riconobbe infatti il suo interlocutore e mentre la vista gli si annebbiava le gambe sembrarono non reggerlo. Stramazzò a terra con quello che avrebbe dovuto essere il suo domenicale bottino.
Nel trambusto che ne seguì, nessuno si accorse che Don Ciccio, con la flemma che lo distingueva aveva lasciato il locale avviandosi verso casa. E così il cliente indesiderato non si presentò più al bar.
Foto del Palazzo della Consulta tratta da Wikipedia. Di Jastrow – Opera propria, Pubblico dominio.
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