La Brexit innesca una grave crisi istituzionale nel Regno Unito. E con le difficoltà economiche peggiorate dall’impatto del coronavirus cinese si profilano tempi duri per Londra: Scozia, Irlanda del Nord, Gibilterra e Galles in una traiettoria diversa dall’Inghilterra. C’è poco da festeggiare
di Gabriele Bonafede
La “festa” per la Brexit rischia di durare poco. Molto poco. Non che fosse imprevedibile. In tre anni è già costata svariate centinaia di miliardi di euro all’economia britannica prima ancora che avvenisse. Vale a dire più della somma di tutti i contributi che il Regno Unito ha versato nelle casse dell’UE per ben 47 anni.
Ma il peggio deve ancora avvenire. I costi stimati sono semplicemente immensi, soprattutto nel caso di un mancato accordo entro undici mesi a partire da oggi.
Se alla fine del 2020 non ci sarà un accordo, l’economia del Regno Unito potrebbe contrarsi dell’8% nel 2021. Per non parlare degli altri costi in termini politici, sociali e culturali, che sono incalcolabili. L’impatto negativo stimato è pesante persino per l’ecnomia italiana.
Ma questo è niente. Il Regno Unito già da adesso rischia infatti lo smembramento perché è composto da diverse entità, unite appunto sotto la corona britannica, che mostrano traiettorie politiche e sociali molto divergenti.
La parte principale è Inghilterra che, tranne a Londra e in altre zone pro-UE, sostiene in larga parte la Brexit e il governo di Boris Johnson. Come ampiamente dimostrato dalle elezioni del dicembre 2019. Ma ci sono anche la Scozia, con 5,4 milioni di abitanti, il Galles e l’Irlanda del Nord. Oltre a vari territori fuori dalle Isole Britanniche, come Gibilterra.
Tra queste, solo il Galles non è fortemente anti-Brexit. La Scozia, in particolar modo, ha una larghissima maggioranza “remain”. Il 62% degli scozzesi ha votato per rimanere nell’Unione Europea nel 2016 e oggi la percentuale potrebbe essere vicina al 70-80%.
Brexit. Tra Scozia e Regno Unito è già scontro sul Referendum per l’Indipendenza
La Scozia ha già richiesto al governo di Londra la possibilità di ripetere il Referendum sulla propria indipendenza, già avvenuto nel 2014 quando il No all’indipendenza vinse con il 53,7%. Tuttavia, in quella occasione molti scozzesi votarono per rimanere nel Regno Unito perché l’indipendenza significava uscire dall’Europa.
Con la Brexit quel voto non ha più basi giuridiche sostanziali, perché adesso il Regno Unito è uscito dall’Europa. Infatti, il quadro geopolitico, giuridico e istituzionale di oggi non è solo cambiato: è persino opposto a quello del 2014. Il Referendum del 2014 sull’indipendenza della Scozia andrebbe quindi ripetuto. È cosa ovvia.
Ma il premier britannico ha tuttavia negato alla Scozia la possibilità di ripetere il Referendum. Lo ha fatto, per giunta, in maniera sprezzante e arrogante, cercando di umiliare pubblicamente in tutti modi l’orgoglio degli scozzesi. Finendo, oltretutto, per dimostrare la sua paura di perdere una volta arrvati al voto.
Il governo scozzese, guidato da Nicola Sturgeon e dal suo partito nazionalista scozzese (SNP, di ispirazione socialdemocratica e progressista), ha dunque lanciato una campagna per effettuare ugualmente un referendum sfidando Londra.
I sondaggi di questi giorni danno ragione all’SNP con il 51% per l’indipendenza. Molti elettori scozzesi che avevano votato No all’indipendenza nel 2014 sono ovviamente passati a favore del Sì, vista la nuova situazione.
L’atteggiamento sprezzante di Boris Johnson e del suo governo nei confronti degli scozzesi non fa che aumentare di giorno in giorno il sostegno all’indipendenza della Scozia. Non stupisce che l’SNP abbia raccolto qualcosa come il 48% dei voti nelle elezioni del dicembre 2019 e i sondaggi lo danno in ulteriore crescita. Altri partiti scozzesi pro-UE stanno valutando se unirsi al sostegno per l’indipendenza. Pare che i Verdi scozzesi abbiano già deciso di sostenerla.
Non va meglio in Irlanda del Nord
Se andiamo altrove, le cose non vanno molto meglio per Johnson e il suo governo. L’Irlanda del Nord è già di fatto fuori dal Regno Unito, per lo meno dal punto di vista delle dogane. L’accordo già siglato nel 2019 dal governo di Johnson con l’UE stabilisce infatti che per cinque anni la frontiera doganale sarà tra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito.
Tra cinque anni, a meno di nuovi accordi, le cose cambierebbero. Ma saranno cinque anni nei quali l’Irlanda del Nord sarà sempre più integrata con l’economia dell’Irlanda più che con quella dell’Inghilterra. Potrebbe quindi unirsi al resto dell’Irlanda, anche per evitare ulteriori problemi.
Soprattutto se la Scozia riuscisse a staccarsi dal Regno Unito e diventare una Repubblica a tutti gli effetti. Ancor più se la Scozia indipendente venisse accolta a braccia aperte dall’Unione Europea, cosa che dal punto di vista emozionale e anche giuridico appare abbastanza ovvia.
Galles, Gibilterra e rischio crisi finanziaria a causa del coronavirus
Se nel Galles non c’è ancora una forte componente indipendentista e quindi tutto è da vedere, a Gibilterra le cose vanno molto peggio già da adesso per il Regno Unito. La Spagna infatti vorrebbe la restituzione di Gibilterra. E adesso la Spagna è nell’UE mentre il Regno Unito no.
Tutte queste forze centrifughe potrebbero dunque portare allo smembramento del Regno Unito, che si ridurrebbe alla sola Inghilterra e, forse, il Galles. A meno che la Brexit non si riveli un successo socio-economico evidente.
Purtroppo per Londra, questo è il punto più dolente e più complesso. In una situazione di tale caos politico e istituzionale, di divisioni, di odio nazionalista e razzista seminato in lungo e in largo, di traiettorie divergenti tra le nazioni che compongono il Regno Unito e con gli effetti della stessa Brexit, le prospettive di una crescita economica, già largamente tarate, sono molto basse.
Per giunta, si profila all’orizzonte una crisi mondiale scatenata dalle impreviste e improvvise difficoltà economiche della Cina a causa dell’impatto dovuto al coronavirus. Una siffatta crisi mondiale certo non aiuterebbe l’economia del Regno Unito anche in condizioni di floridezza. Figuriamoci con le prospettive recessive dovute alla Brexit.
In copertina, a Bruxelles: “Europe loves Scotland”