di Elena Beninati
La rivoluzione del ‘79 ha dato i suoi frutti, la violenza inaudita di quei (e di questi) giorni ha tradito il sogno, corrotto perché attualizzato, di una generazione. Illusa, bigotta, deviata nelle fondamenta del pensiero da un tarlo miserevole: l’odio rivolto ad un occidente, temuto e amato, come una amante disprezzata ma insostituibile al tempo stesso.
Un sogno già compromesso in partenza dalla violenza vissuta nella corsa alla sua realizzazione.
Un sogno effimero e vano, che denota una mancanza abissale, fra il detto e il desiderato. Ma anche un sogno corrotto nella becera rappresentazione di un potere che esterna i suoi mezzi nella degenerazione.
Da quel primo febbraio 1979 in cui il religioso sciita Ruhollah Khomeini ruppe l’esilio e rientrò a Teheran, datiamo la nascita della Repubblica islamica, che decretò un cambio di rotta politica e di alleanze internazionali per l’intero Medioriente.
Il governo del giureconsulto
Khomeini divenne il leader della rivoluzione iraniana marginalizzando tutte le altre forze politiche che avevano complottato contro lo scià Mohammad Reza Pahlavi, il re che governava in maniera autoritaria in Iran dal 1941.
Egli impose un sistema di governo chiamato velayat-e-faqih, “governo del giureconsulto”, che riconosceva di fatto il ruolo di guida del giurista islamico sulla comunità dei credenti.
La scrittrice Azar Nafisi ha descritto questo sistema in poche righe. “La Repubblica islamica non era semplicemente modellata sui principi istituiti dal profeta Maometto durante il suo dominio sull’Arabia, ma era la legge stessa del profeta. La guerra contro l’Iraq era come quella che il terzo imam, il più militante, l’imam Hussein, aveva mosso contro gli infedeli. Le offensive contro l’Iraq si rifacevano alle battaglie di Maometto. L’ayatollah Khomeini non era un semplice leader politico o religioso, era un imam per diritto acquisito.”
Il copione da romanzo socialista in Iran
Nelle parole della grande scrittrice iraniana, che ha vissuto in pieno i giorni della rivoluzione, possiamo cogliere il senso di molte premonizioni: “Nei circoli intellettuali e rivoluzionari sembrava che tutti si esprimessero seguendo un copione, interpretando i personaggi di un romanzo socialista in versione islamizzata”.
La rivoluzione iniziò così, con un movimento ampio e vario che includeva studenti, nazionalisti, religiosi e comunisti, e si opponeva alle politiche autoritarie e fallimentari dello scià. Una rivoluzione che chiama alla rivolta, ma ottiene solo una rivincita senza vittoria.
La nuova Repubblica islamica è nata dai magheggi di due referendum. Il secondo per approvare la nuova Costituzione basata sul velayat-e-faqih, il sistema che regola ancora oggi l’assetto istituzionale dell’Iran. Consisteva in un sistema dominato da organi formati da religiosi e con a capo la potente Guida suprema, Khomeini.
Ma prevedeva anche istituzioni democratiche ed elettive, come il presidente della Repubblica e il Parlamento nazionale. Una sorta di dualismo fra democrazia e autoritarismo, incarnato oggi dalla rivalità tra il presidente Hassan Rouhani, moderato e favorevole all’apertura verso l’Occidente, e la Guida suprema Ali Khamenei. Il potente religioso ultraconservatore a cui fanno riferimento tutte le frange più tradizionaliste della politica iraniana.
La rivolta in Iran oggi
In questi giorni neri come il jihab imposto alle sue donne, nel cui disastro bruciano al fuoco residui di umanità e vestigia di tolleranza, il governo iraniano ha iniziato il razionamento del petrolio aumentandone i prezzi.
In realtà è una scusa per alimentare il malcontento e legittimare i guardiani del popolo, i Pasdaran, corpo di Guardie rivoluzionarie nato all’indomani della fuga dello scià per volere di Khomeini e fedeli alla sua leadership.
Guardiani di una religione senza ragione, votata alla distruzione coatta del ragionamento. I pasdaran manipolano ancora oggi i settori strategici dell’economia, in primis petrolio, di cui l’Iran è produttore ma non raffinatore.
Investire in settori controllati dalle Guardie rivoluzionarie implica che le aziende europee si trovino al centro del bersaglio delle sanzioni statunitensi e internazionali. Sanzioni che sono ancora in vigore a causa delle attività militari dei pasdaran: test missilistici e appoggio a movimenti considerati terroristici.
Gli stessi problemi economici ereditati dalla rivoluzione hanno spinto l’ala più moderata del regime iraniano, quella guidata dal presidente Hassan Rouhani, a negoziare un accordo con diversi paesi occidentali. Per allentare le sanzioni internazionali sull’Iran, in cambio della rinuncia al programma nucleare militare iraniano, un accordo firmato nel 2015 da UE e Stati Uniti. Ma letteralmente vanificato oggi dalla decisione di Trump di ritirarsi.
Il popolo contro la corruzione e il tradimento del “sogno”
Il popolo oggi è insorto perché tradito dalle sfere alte del potere. Il silenzio dignitoso e polemico, tratto distintivo del popolo iraniano in risposta alle pretese della tirannia, oggi si è spezzato. Il tradimento è ai vertici, lo stesso ayatollah ha dichiarato il suo sostegno alla decisione governativa di razionare e aumentare i prezzi della benzina, additando come banditi i manifestanti.
“Non risolveranno niente e creeranno insicurezza”, ha aggiunto Khamenei. Accusando l’ex famiglia reale dei Pahlavi e i criminali Mojaheddin del popolo, gruppo armato che si oppone alla Repubblica islamica, di avere incoraggiato gli incidenti.
Un governo che si sfoga contro il suo stesso popolo. Un popolo che non può esprimere liberamente la sua volontà. Non può che aderire al dissenso. Questo dissenso oggi crea apertura ma anche contraddizione, e violenza. In un paese antico che non ha sanato il baratro culturale e comportamentale fra modernizzazione, iper-veloce, e il rischio di “occidentalizzazione”. L’Iran, senza tregua e senza pace, sospeso nei dilemmi di una tragedia che non concede vie di salvezza.