L’analisi del voto regionale. Il M5S conferma il crollo, il PD delude, la Lega cresce come previsto
di Vincenzo Pino
Il centrodestra conquista la regione Basilicata con nove punti di distacco sul centrosinistra. Il risultato definitivo è 42,2% a 33,1%. Cinque stelle, invece, al 20,3 %. Un copione quasi analogo a quello di Abruzzo e Sardegna, per rifarci agli appuntamenti più recenti. Con il gap tra centro destra e sinistra che si restringe di qualche punto senza invertire l’andamento generale.
Se da un lato si conferma il bipolarismo centrodestra-centrosinistra con la marginalizzazione dei pentastellati, che nella occasione hanno perso più di metà dell’elettorato passando dal 44,3 del 4 marzo all’attuale 20,3, dall’altro si assiste al fenomeno per cui lo smottamento di consensi di questo movimento premia per la gran parte la Lega.
Salvini triplica i propri voti nello stesso periodo passando dal 6,6% al 18,9. E segue ora a ridosso il Movimento Cinque Stelle che si conferma primo partito col 20,3.
Il consenso alle formazioni della compagine di governo (M5S e Lega) si attesta al 39%, risultato in qualche modo accettabile ma lontano quindici punti circa dalla media nazionale.
Anche se in questo tipo di elezioni vi è l’apporto di liste civiche territoriali il cui peso però per la compagine di centrodestra è limitato visto che i cinque stelle correvano da soli e per il centro destra il peso dei partiti nazionali nella coalizione è stato pari all’80%.
Sul fronte del centrosinistra, invece, il peso dell’unico partito nazionale presente il Pd conferma la sua caduta passando all’8,3% e rappresentando solo un quarto della coalizione.
Era al 16,4% il 4 marzo 2018, per memoria. Una caduta rovinosa che ha peggiorato il proprio peso proporzionale all’interno della coalizione rispetto al voto di Abruzzo e Sardegna dove rappresentava più del 30% di quell’elettorato.
Non sono bastate, ad una prima valutazione, le primarie del Pd per determinarne una crescita ed una maggiore attrattività rispetto all’elettorato di centro sinistra che sembra, invece, maggiormente convogliarsi verso una rappresentazione largamente proporzionalistica. Senza un polo solido di aggregazione, quale era stato, appunto, il Pd nelle elezioni del 2013 e 2014. Sembra invece essersi realizzato con le primarie l’effetto opposto. Quello di avere accentuato la vocazione proporzionalistica e la preponderanza del peso del sistema delle alleanze nel popolo di centrosinistra, piuttosto che quello del rafforzamento del Pd come traino della coalizione.
E tutto questo può suscitare per il Pd qualche preoccupazione rispetto al prossimo appuntamento significativo, le Europee, basate appunto sul metodo proporzionale.
Se il Pd non riesce a ritrovare un elemento che sia insieme identitario ma capace allo stesso tempo di racchiudere la profonda articolazione di sensibilità presenti al suo interno mi sembra che sia destinato a non raccogliere un consenso significativo alle prossime europee. Anche se, alle europee, le liste locali non ci saranno, la vocazione trainante del Pd a questa tornata non sembra particolarmente forte.
Esaurito il capitolo delle possibili alleanze con il movimento pentastellato, grazie a Renzi, sembra anche in crisi lo schema attuale del Pd che punterebbe al ritorno dei suoi elettori andati “momentaneamente” ai cinquestelle il 4 marzo.
Per questo da parte di alcuni esponenti di spicco del Pd si inviterebbe a riversare a questi ultimi un trattamento differenziato, accentuando eventualmente i motivi di polemica e di battaglia politica sulla Lega.
Uno schema interpretativo si è rivelato inesatto a partire dall’azione sui migranti in cui Lega e cinque stelle si sono rivelati uniti come una falange macedone a guida salviniana.
Ma che appare di difficile gestione se i terreni di intesa risultano di difficile attuazione nel breve periodo per il Pd solo se si pensa alla Tav dove la distanza coi cinque stelle è ben più ampia di quella con le posizioni leghiste.
In definitiva, se non si coglie il profilo programmatico e distintivo del Pd che lo faccia identificare come un partito dello sviluppo e riformista, aperto anche alle istanze sia del mondo delle imprese sia del lavoro, il Pd sembrerebbe avviato a seguire il percorso declinante del socialismo europeo. E a subire l’agenda politica del governo del baratto e del rinvio.
E queste elezioni in Basilicata, a mio avviso, lo dimostrano. Lo smottamento dei pentastellati c’è, ma non va verso la sinistra ed il Pd rifugiandosi in larga parte verso l’astensione oppure verso la Lega. Un risultato per certi versi analogo a quelli precedenti dell’Abruzzo e della Sardegna dove la Lega ha guadagnato rispettivamente il 20% e l’11% dei voti.
Per il Pd in definitiva si tratta di sconfitte seriali, mentre nel 2014 erano vittorie con la coalizione che veleggiava sopra il 40%, lo stesso consenso delle Europee.
Non sarebbe il caso di riflettere sul serio sul declino della sinistra in questi anni ora che non c’è più da un anno l’alibi di Renzi cui accollare il peso delle sconfitte?
Ricordiamo per memoria che anche in Lazio nel 2018 la coalizione di centro sinistra in Lazio ebbe lo stesso 32%. Un trend che ormai si ripete con assoluta frequenza alle elezioni regionali post 2018.
Ma con quell’esito Zingaretti vinse le elezioni, avendo perduto il 9% rispetto al 2013. Ma solo grazie alla rottura del centro destra.
Non sarebbe il caso di fare ora una seria analisi del voto?