di Michele Pipìa
Io sono il mare. Io estendo i miei confini sull’universo conosciuto, inghiotto la luce della luna e di tutto il firmamento riflettendola, amplificandola, riproducendo nastri argentei per far credere agli uomini che esista una bellezza sovrannaturale.
Io sono il mare. Nel mio vorace ventre sono ormeggiate per sempre le triremi affondate al largo delle Egadi, le navi di Serse l’arrogante, le galee genovesi e veneziane. Solo ad Ulisse, l’indomito, ho permesso di percorrermi.
Io sono il mare. Quando gli uomini nella loro pochezza si combattono io gioisco perché so che i pesci che allevo avranno cibo in abbondanza. A nulla vale la loro presunzione, la loro vanità, il loro ardire inconcludente, non importa chi vinca e chi perda, so già che il loro legno, il loro acciaio così come la loro malvagità periranno arricchendo i miei fondali ed io avrò il loro tributo senza più restituirlo.
Io sono il mare. Le mie figlie col loro dolce canto hanno rapito una moltitudine di ignari sognatori, li hanno lusingati, li hanno catturati, li hanno divorati, alimentando il mio ciclo vitale.
Io sono l’oceano. La mia vastità è immensa. Le colonne d’Ercole mi hanno rinchiuso per lungo tempo escludendomi dalle sorti dell’umanità, fin quando incauti naviganti decisero di conoscermi.
Io sono l’oceano. Quando il vento mi carezza la pelle mi inorgoglisco e monto onde che tutti i navigli temono. Alte. Sinuose. Spumeggianti. Terribili. I miei fondali pullulano di caravelle, di baleniere, di galeoni, avvolti nei sudari delle loro stesse vele.
Io sono l’oceano. Stacco enormi blocchi di ghiaccio per mandarli di notte incontro alle navi ignare. I miei alberi dai fiori di corallo frangono le onde dando l’illusione che al di là io sia tranquillo. Non sanno, gli ingenui, che nel tentativo di trovare riparo le loro chiglie vi strisceranno aprendo ampi squarci attraverso i quali io entrerò.
Io sono l’oceano. Il sole col suo caldo manto cattura le molecole di cui sono composto che i fiumi mi restituiscono pulite, linde, dolci. Il sacro Gange, l’impetuoso Niger, il fangoso Mekong carico di dolore e di sangue, sono tutti loro che mi rigenerano. I fiumi sono le mie dita, le mie mani ed i loro alvei i guanti con i quali carezzo la terra.
Io sono l’oceano. A volte la terra si spacca sotto di me ruttando fiumi di lava che mi procurano grande dolore ed io urlo, urlo così violentemente da generare un’onda smisurata, lunga, crudele, che spazza via tutto ciò che incontra nel suo cammino. Non c’è barriera che mi resista, non c’è argine che mi contenga.
Io sono l’oceano. La mia marea è enorme, talmente possente da risalire impetuosa il corso dei fiumi col suo carico di sale che impoverisce la terra e uccide i pesci, le alghe, il futuro. Il calore del mio corpo a volte risale, le nubi si accumulano sopra di me e avanzo roteando fin dentro la terra dove gli uomini si credono al sicuro nelle loro case di carta. Devasto, uccido, distruggo tutto ciò che trovo nel mio cammino.
Io sono la terra. In me nasce la vita, in me finisce la vita. Nelle mie viscere arde un fuoco primordiale che dona il calore eterno, io lo conservo gelosamente.
Io sono la terra. Fratello sole mi scalda e asciuga le mia pelle bagnata, unta, colma di fango. Sorella pioggia mi rinfresca dando finalmente respiro alle mie zolle riarse. Un seme trasportato dal vento trova in me rifugio. Io lo abbraccio, lo sotterro, permetto alle sue radici di penetrarmi per trovare nutrimento, accolgo il peso del suo stelo che si inarca nel cielo.
Io sono la terra. Da tempo immemore allevo un numero infinito di alberi che mi danno refrigerio con la loro ombra, che mi proteggono dagli urti della grandine. Essi sono miei figli e i figli dei miei figli. Quando moriranno io non soffrirò perché so che dai loro tronchi, dai loro rami, dalle loro foglie avrò cibo che userò per far germogliare altri alberi.
Io sono la terra. Ho un vestito di grano, un vestito di uva, un vestito di zafferano. Di tutti vado orgogliosa e mi pavoneggio ché il mio colore è cangiante, il giallo, il verde, il rosso. Le rose mi adornano e i rovi mi trafiggono.
Io sono la terra. Dalla mia polvere nasce l’uomo, tra le mie zolle egli muore. Mando vermi a cibarsi del suo cadavere per poi farlo rinascere a nuova vita. Egli è codardo perché non sa che il suo ciclo non ha mai fine.
In copertina, il mare intorno a Isola delle Femmine, provincia di Palermo. Foto di Gabriele Bonafede