di Giovanni Rosciglione
Volevo scrivere qualche sciocchezza sulle prossime elezioni amministrative di Palermo, che saranno domani: nel 2017. E sulla necessità, che avverto, di cambiare registro.
Ma mi sono imbattuto in questo mio articoletto sulle elezioni comunali a Palermo del 2012, nel quale prendevo posizione non neutrale all’approssimarsi della contesa per la scelta del Sindaco.
Il titolo dell’articolo era: “Opinioni, elezioni e rottura degli schemi”.
E ne riporto il passo centrale: “Il problema non è di ‘classe’, ma di ‘cultura’. E il fatto è che Palermo ha una classe dirigente con poca… ‘classe’. Capace di avvertire con disgusto “puzze sotto al naso” altrui, ma di ignorare sempre i propri afrori. Ne è nata una società bloccata, stagnante, limacciosa. Sedariani e Gattopardi magari hanno magnanimamente accolto a corte i rappresentanti delle nuove corporazioni.”
“A volte recitano la commedia del combattimento, ma sostanzialmente si trovano mutuamente d’accordo a ‘non cambiare’. Provate a chiedere a qualche giovane che vorrebbe accedere alle Professioni, che vorrebbe avventurarsi in un’intrapresa produttiva, vincere un concorso universitario. Ci vuole il pass! Firmato Corbera o Sedara, ma il pass! O se no, via per Milano, Londra, Francoforte, Melbourne o Singapore… Insomma, sono del parere che è da questo ‘blocco’ sociale, da questa palude culturale, che nascono tutti i nostri guai. Compresa una mafia che, più che in ogni altra parte al mondo, ha una capacità mimetica e adattativa che solo il meccanismo Sedara/Corbera può spiegare.”
E chiudevo l’articolo auspicando un voto per un cambiamento.
Tutti sanno come andò a finire. E tutti possono constatare che i miei auspici, come era prevedibile, furono delusi.
Ve lo riporto, come testimonianza di cocciutaggine, invitandovi tuttavia a leggere quella mia dilettantesca e temeraria analisi sulla società palermitana e su i suoi meccanismi di mimetica conservazione, alla luce degli accadimenti di questi ultimi anni: il caso Tutino, Il caso Helg, il caso Marcatajo, il caso Saguto e del circo dei beni confiscati, il caso Montante e così via.
E anche a valutare con obiettività il livello qualitativo della nostra città e il clima culturale che vi si respira.
Resto convinto che ci voglia una trasfusione totale di sangue.
Il punto è che io penso che non basti più cambiare nomi o parte politica a Palermo, ma ci voglia la folle, esaltata ambizione dell’entrata in scena di un nuovo nucleo di giovane classe dirigente che predichi e pratichi la cultura dell’etica della responsabilità, della religione civile, del repubblicanesimo democratico, della radicalità laica di Sciascia, della liberalità di Croce, della profondità di Gramsci. E che questa nuova leva sia disposta a mostrare i denti. E combattere. Nuovi sacerdoti di una cultura della modernità.
È una strada impervia: non c’è tram che possa condurci a questa meta. Solo uno scatto di ambizione e di orgoglio può servire.
Perché Palermo non deve poter cambiare? Perché Palermo non può crescere? E, fatti salvi il sole e il mare, non possa concedere ai suoi cittadini la stessa qualità di vita di Torino e Trieste?
Chiedo troppo? Si, ma è per non dovermi accontentare del nulla.
In copertina e nel testo due fotogrammi del film “Il Gattopardo” (1963) di Luchino Visconti.
Bell’articolo. Auguri, Palermo.
Purtroppo il nuovo che appare è ripetizione senza cuktura del vecchio…
Caro Giovanni, se è vero che per far lievitare una grande quantità di farina basta poco lievito, è vero anche che se questo non è abbastanza, è la farina a soffocarlo. Il nostro lievito “buono” non è sufficiente a lievitare la farina-Sicilia. Non arriva alla cosiddetta “massa critica” per fare il miracolo. I motivi per cui è poco sono più d’uno, ma grosso modo – a mio avviso – eccoli qua. Il primo: il nostro sistema è indistricabilmente basato sul clientelismo, che impariamo dalla culla: “cu ci canuscemu ddocu?”. Non ne abbiamo vergogna, anzi ce ne facciamo un vanto (“C’era una fila che non ti dico, ma lì ci conosco uno, e futtivu a tutti”). La conseguenza è quel terribile, umiliante “A cu apparteni chistu?” che sottolinea quanto uno da noi non vale per quello che è, ma per la persona, il gruppo o la cosca di cui è proprietà. Inevitabile che le nuove leve nascano in gran parte pronte a ricalcare le orme di chi le ha precedute. Il secondo motivo è il “si salvi chi può”. E “chi può” è in genere un appartenente alla classe media, scolarizzata, quella che, di fatto, produce più “locomotive” – gli uomini che tirano la volata alla società. Fra questi, chi ci riesce “sistema” il figlio vicino a sé – nel suo studio, o dove trova “la mano giusta”. Chi non ci riesce, o ha figli che, magari perché hanno visto il mondo normale e magari ci hanno fatto addirittura l’Erasmus, sono schifati dei nostri andazzi, aiuta i propri ragazzi a trasferirsi al nord o all’estero. Ecco che fine fa il nostro lievito: una parte marcisce, una parte se ne va … e una parte, insufficiente, rimane a disperarsi facendo lavori talvolta inadeguati, altre umilianti e spesso non facendone affatto. Una volta ho paragonato la Sicilia a un acquario con le pareti di vetro, i cui pesciolini credono di essere parte dell’oceano, e invece sono integrati in un ecosistema diverso in cui per decine d’anni c’è stata una mano che ha versato l’acqua e ha distribuito il mangime. Pesciolini che quella mano hanno imparato a ingraziarsi e baciarla. Adesso che il livello dell’acqua scende, e il mangime scarseggia, i pesciolini impazziscono come i tonni nella camera della morte. Si agitano disperati, alcuni fanno follie per attaccarsi alla mano battendo la concorrenza, altri, depressi, si adagiano sul fondo, e i più fortunati sono lanciati fuori dall’acquario da genitori finché sono in tempo.