di Pasquale Hamel
Le auto dovevano essere rigorosamente sportive, magari col tettuccio asportabile perché nelle belle giornate che, per carità di Dio, nell’agrigentino, estremo lembo d’Italia, non mancavano mai, potesse fare il pieno di sole e di vento. E di auto, bisogna ricordarlo, si diceva che ne avesse sfasciate più lui che uno sfasciacarrozze; la sua guida al limite gli era costata, infatti, più di un incidente e, lui stesso, più volte aveva rischiato di lasciarci le penne. Ma c’era ben poco da dire, quello era il suo modo di manifestarsi, di fare, com’egli orgogliosamente sosteneva, il “pieno di se stesso”.
In realtà quelle spericolatezze erano, anche, il modo di scaricare le tensioni che lo agitavano per una situazione sicuramente non bella; pur possedendo tra feudi e case un notevole patrimonio, che in una situazione ordinaria gli avrebbe consentito di vivere comodamente di rendita, il nostro aveva più debiti che capelli al punto che i familiari, per tamponare la situazione e frenare quella evidente debolezza nell’amministrazione, malgrado le sue rimostranze, presero la grave decisione di interdirlo.
Nonostante la grave misura a suo carico, l’antica deferenza che tradizionalmente i siciliani manifestano nei confronti di quel ceto aristocratico che nel bene, ma soprattutto nel male, ne ha incarnato l’anima, il cavaliere continuava a ricevere credito da piccoli commercianti, artigiani e prestatori d’opera in genere. Così, oggi faceva il pieno di provviste di cose, per lo più inutili, in quel tal negozio, domani si spostava in un altro e poi in un altro ancora, lontana mille miglia dal suo pensiero l’idea di dover pagare.
Seppure, anche allora, nei vari paesi che frequentava, fosse particolarmente larga la possibilità d’opzione, poteva capitare che senza rendersene conto tornasse sul luogo del delitto, ed allora, con la faccia di bronzo che lo contraddistingueva, non si perdeva d’animo e ordinava quanto credeva di aver bisogno pronto però, non appena caricata l’auto, con la sua coppola di paglia, gli occhialoni scuri ed i guantini in pelle da pilota a balzare a bordo e partire a tutto gas.
“Cavalè, s’affirmassi, ss’ascurdà di pagari”, gli gridava dietro, rincorrendolo, la sfortunata vittima e lui, proseguendo imperterrito il suo andare, con fare compassato, agitando la manina ben guantata, con degnazione rispondeva con un rilassato “ciao caro”, come se quel disperato richiamo fosse piuttosto un omaggio che il plebeo deferente gli riconosceva.
E proprio per questo motivo, “cavaleri, ciao caro”, fu il nomignolo con cui passò alla storia popolare dell’agrigentino.
Qualcuno, leggendo queste righe incuriosito si sarà chiesto come sia andata a finire; ebbene, come quasi sempre accade in casi simili, la storia finì proprio male. Infatti un giorno, per sfuggire all’ennesimo creditore che, a quanto pare non rassegnato, aveva inforcato la sua moto e si era dato all’ inseguimento, si scontrò con la sua potente spider, sulla strada che da Siculiana porta ad Agrigento, con un’utilitaria alla cui guida c’era uno stimato insegnante elementare del paese che, imprudentemente, non aveva tenuto conto di uno stop.
Nello scontro il povero maestro ebbe la peggio e, dopo alcuni giorni di degenza in ospedale, nonostante un complicato intervento per salvarlo, perse la vita mentre il cavaliere “ciao caro”, scampato alla morte per miracolo ma ridotto a mal partito, a tal punto che i suoi pezzi, con un’immagine particolarmente puntuale, si dicevano “cugliuti cu cucchiarinu” (raccolti con il cucchiaino), finì i suoi giorni su una sedia a rotelle privato per sempre dell’uso delle gambe.
Particolare interessante è ricordare che quando qualcuno dei suoi antichi creditori aveva la sfortuna di incrociarlo, non poteva trattenersi dall’agitare la manina richiamandone l’attenzione con un “ciao caro!” che, come si è detto, era stato il provocante saluto del cavaliere.