di Pina Bellomonte
Oggi è sabato (anni fa NdR), vigilia di San Giuseppe. Non festeggio più questa ricorrenza da anni, nonostante sia il mio onomastico. Quelli che portavano questo nome, o avevano diritto a festeggiare la festa dei padri, non sono più. E il mio onomastico è passato sempre in sordina davanti ai diritti dei Maiores.
Esco dal lavoro in ospedale in considerevole ritardo. Sull’autobus un nutrito gruppo di ragazzi, provenienti da Mondello, canta, sfotte, urla. Ma soprattutto commenta.
Uno, che sembra il leader indiscusso, capelli rasati a metà, parzialmente decolorati, mozzicone di sigaretta penzolante dall’angolo della bocca, mi avvista. Aggrappata malamente ad un sostegno, quasi sepolta da quella giovane umanità sudata, accaldata.
E, con mia somma sorpresa, fa scendere da un sedile un suo coetaneo e mi fa sedere. Cerco di protestare ma mi zittisce: “Signo’ ma chi fa? Su scurdò? Curo’ me patri!” (Signora, ma che dice? Lo ha dimenticato? Ha curato mio padre!).
Suo padre, buonanima, vendeva sulla spiaggia d’estate. È stato uno degli ambulanti stagionali di Mondello: focacce e ciambelle … Accompagnandole con un verso di poesia adattato all’ acquirente. “Per la signorinella, una bella ciambella…”. Originale e anche simpaticamente gradevole.
D’inverno sugli spalti dello stadio la domenica o per le strade di Palermo: lo “scaccio” (semenza di zucca e ceci secchi) o altri stuzzichini da sgranocchiare. Ora mi ricordo di entrambi, padre e figlio, il figlio soprattutto. Un adolescente magrissimo e spigoloso con gli occhi spalancati, smarrito davanti al mistero della morte che si portava via il padre ancora giovanissimo. Sono passati alcuni anni, lui mi sorride.
“Signo’ curri sempri, lei! Picchi un si ferma tanticchia? Vinissi cu mia. Amuninne a viriri a vampa i San Giuseppi” (Signora, corre sempre lei! Perché non si ferma un pochettino? Venga con me. Andiamo a vedere la vampa di San Giuseppe).
“E dov’è “, chiedo.
“A Hausa, o’ palco ra musica”.
Lo seguo. Non vedo una vampa da anni.
Prima, in ogni quartiere, la vigilia di San Giuseppe, si accendeva la vampa. Nei giorni precedenti si raccoglievano vecchi mobili, legna, cassette per la frutta, e ognuno collaborava con vecchie suppellettili messe da parte.
Scendiamo alla Marina. Nella piazza di Hausa – La Kalsa, quartiere popolare di Palermo. Una pira di legna ordinatamente disposta a formare una piramide è in attesa.
Si attende il crepuscolo. Intanto attorno si raccoglie la gente. Sono abitanti del luogo, ma anche provenienti da altri quartieri. A voce bassa, quasi in rispettoso silenzio, si scambia un saluto. Infine, arriva l’ordine dell’accensione. U zu Cicciu, il gran sacerdote dell’officio, versa della benzina da una tanica e poi accende.
Il fuoco… le fiamme si alzano. Prima basse, poi sempre più alte. E illuminano i volti degli astanti. Il silenzio è interrotto dai crepitii. Poi dai sibili, e un boato irrompe quando la legna ha preso fuoco del tutto.
È un mormorio di orrore e stupita ammirazione che serpeggia sulle bocche degli spettatori. Sempre uguale. Le fiamme hanno quasi un potere ipnotico. Ci affascinano. Involontariamente ci avviciniamo tutti. Il calore ci attrae, ma è il rumore prodotto dal fuoco e la musica che ci ammalia. (*)
È il fuoco della vampa di San Giuseppe è purificatore che annuncia una nuova vita. Alla fine ci allontaniamo più leggeri, quasi svuotati. In quei pochi minuti abbiamo simbolicamente bruciato ansie, rancori, malcontenti. Ci salutiamo migliori, quasi fraternamente, allontanandoci per le nostre strade.
(*) L’episodio raccontato è avvenuto anni fa. Ci sono anche i vigili del fuoco, la vampa è di limitate dimensioni, controllata bene in uno spazio abbastanza ampio, senza rischi, questo è importante.