di Gianluca Navarrini
L’irrisione e il sarcasmo con cui è stato accolto il discorso di insediamento di Enrico Letta al vertice del PD è lo specchio del nanismo e della miopia intellettuale del nostro ceto politico e, purtroppo, anche di quello giornalistico.
A seguire i notiziari sembra che Letta abbia parlato solo di voto ai sedicenni e di ius soli. E ciò ha scatenato il coro delle proteste, tutto intonato sui toni del “in questo momento ci vuole ben altro”.
Se questo benaltrismo è perfettamente comprensibile tra leghisti e neo-missini, a me pare decisamente ingiustificato nell’area laica liberal-progressista. Proverò a spiegare perché.
Letta e il problema della partecipazione giovanile
In primo luogo, Letta non si limita a evocare lo ius soli e il voto ai sedicenni, ma enuncia un pacchetto di riforme istituzionali che includono anche la legge elettorale, l’introduzione della sfiducia costruttiva e l’attuazione dell’art. 49 Cost. sull’ordinamento dei partiti. In questa prospettiva, il voto ai sedicenni (misura in sé e per sé discutibile, anche secondo me) diventa un modo per tentare di riavvicinare i giovani alla politica attiva. Forse è un rimedio sbagliato, ma individua un problema reale.
I partiti politici sono percorsi da un giovanilismo di facciata da parte dei “boomers”, che però si limitano a parlarne: i giovani, i loro entusiasmi, le loro intemperanze, i loro slanci e la loro naturale iconoclastia sono assolutamente malvisti e non tollerati.
I pochissimi giovani sono benvenuti solo se si limitano a fare coreografia nelle occasioni ufficiali, sventolando bandierine e pronunciando discorsi encomiastici all’indirizzo dell’oligarchia al comando. In queste condizioni, perciò, non c’è da stupirsi se la maggior parte dei giovani che frequentano attivamente i partiti sono quelli che vi vedono una possibilità di carriera. E non è un bel quadro.
Letta e Renzi: continuità e discontinuità
In secondo luogo, Letta ha lasciato intendere di volersi proporre all’interno del partito come un continuatore dell’opera unitaria di Zingaretti. Tuttavia, con le sue proposte di riforma si è rivolto all’esterno del PD, con un tratto di ideale continuità con la stagione delle riforme voluta dall’arci-nemico Matteo Renzi.
Non dimentichiamoci che Letta al referendum del 4 dicembre 2016 votò sì alla riforma costituzionale, nonostante il suo dissidio personale con Renzi. E non dimentichiamoci neppure che fu proprio il “rottamatore” a tentare di introdurre (senza successo) lo ius soli nella variante dello ius culturae.
Aver raccolto questo testimone e aver annunciato l’avvio del dialogo anche con Calenda e Renzi, per andare all’incontro con un Movimento 5 Stelle guidato da Conte (e, quindi, depurato dai più indigesti aspetti eversivi), è una dichiarazione programmatica che merita rispetto e, soprattutto, grande attenzione.
E tanto più mi riesce incomprensibile il sarcasmo e l’irrisione che ha accolto il discorso di Letta, quanto più questi atteggiamenti sono giunti da coloro che avrebbero tutto l’interesse a fare del PD uno dei pilastri di un’alleanza di centro sinistra a trazione liberal-progressista.
L’importanza delle riforme
Infine, a me pare importante sottolineare che in questo momento Letta non parli solo della distribuzione dei soldi del Next Generation EU, ma di riforme istituzionali. In Italia chi ne parla viene sistematicamente accolto da una pioggia di fischi e di commenti negativi, il cui leitmotiv è sempre lo stesso: non è il momento. Vuoi per la crisi, vuoi per la pandemia, vuoi per chissà quale altro motivo, in Italia non è mai il momento.
Ma, a forza di non essere mai il momento, il nostro edificio costituzionale e istituzionale ci sta crollando sulla testa; la nostra costituzione economica è ferma a una quarantina di anni fa. Il “Paese reale” ha perso quasi ogni contatto con il “Paese legale”.
Viviamo inconsapevolmente la dissociazione tra costituzione formale e costituzione materiale. Senza considerare che in un sistema di rigidità costituzionali le prassi dovrebbero solo servire per colmare le lacune dell’ordinamento, senza mai modificare il dettato delle disposizioni scritte.
Ma l’esperienza ci mostra la carne viva del permanente circo delle modifiche costituzionali di fatto, adottate surrettiziamente tramite strappi istituzionali e con il consolidamento di prassi praeter aut contra legem. E ciò accade con sempre maggior frequenza proprio perché le regole scritte sono ritenute sempre più inadeguate. Così abbiamo inventato formule fantasiose ed assurde come i “governi del presidente”, i “presidenti del consiglio non eletti”, i “contratti di governo”.
E siamo giunti a varare una riforma costituzionale insensata – quella del taglio dei parlamentari – mentre il governo sospendeva alcune inviolabili libertà costituzionali con dpcm. Una prassi, quest’ultima, totalmente illegittima, ma che sembra destinata ad un radioso futuro.
L’umiltà e l’ascolto sono virtù democratiche
Perciò, seppur senza accordare aperture di credito al buio, credo che Letta vada seguito con attenzione e le sue proposte debbano essere esaminate e giudicate nel merito sine ira et studio proprio dagli esponenti dell’area liberal-progressista.
Area che – messi al bando tutti i personalismi – deve dismettere al più presto sia il sussiegoso snobismo conservatore, sia il dogmatismo settario da rivoluzionari da salotto, per dimostrare sul campo di essere davvero capace di pensare con laico pragmatismo a come rimettere in moto il Paese.
Come ho già scritto più volte, occorrono visione, coraggio e competenza. Aggiungo ora che serve anche una buona dose di umiltà e di disposizione all’ascolto. Il sarcasmo, l’irrisione dell’avversario, l’aggressione verbale gratuita non solo non servono a nulla, ma creano un clima di ostilità che impedisce un leale – ancorché dialettico – confronto tra le parti.