di Maria Teresa de Sanctis
Fare la sintesi di qualcosa di complesso non è facile. Comporta sempre il rischio di dimenticare elementi importanti o di non analizzare bene i fatti. Riuscire quindi ad essere sintetici e analitici al tempo stesso nel raccontare una storia complessa contenendo avvenimenti e, pur nella misura dei fatti, essere in grado di descriverne e analizzarne i protagonisti e i loro comportamenti, non è cosa da poco.
È così che il regista polacco Pawel Pawlikowski ha costruito, e con successo, il suo ultimo lavoro, l’intenso “Cold war”, un film premiato per la migliore regia al Festival di Cannes 2018 e che, dopo aver vinto 5 European Film Awards, sarà anche in gara per l’Oscar quale miglior film straniero, per inciso premio Oscar già vinto dal regista col suo bellissimo “Ida” nel 2015.
“Cold war”, è il racconto di una tormentata storia d’amore ai tempi della guerra fredda, un racconto caratterizzato da un’ottima musica, che fa da leitmotiv a tutto lo svolgersi degli avvenimenti, e dal continuo spostarsi da una parte all’altra dell’Europa.
Nella Polonia degli anni cinquanta un musicista, Wiktor (interpretato da Tomasz Kot), cerca giovani artisti nei villaggi dell’entroterra del paese, portando così allo scoperto musiche di antica tradizione popolare. Così facendo incontra una giovane artista, Zula (Joanna Kulig), dotata di talento e fascino, e fra i due nasce quello che sarà un grande eppure tormentato amore.
Dalle musiche folk tradizionali, bellissime a tal proposito le scene iniziali con antichi strumenti e vocalità assai singolari, al jazz parigino degli anni “50 (bella la trasformazione in raffinato brano jazz di una canzone popolare cantata dalla protagonista Zula), è la musica a seguire le dinamiche dei due personaggi e del loro inquieto amore.
Con una splendida fotografia che regala suggestive inquadrature dei tanti volti ora di un pubblico ora di una folla, e un bianco e nero esaltante la drammaticità e la bellezza delle immagini, il film nel suo procedere per frammenti (si passa dalla Polonia a Berlino a Parigi) ci racconta di questo amore così profondo eppure così travagliato. Dove il continuo cambiare dei luoghi si riflette inevitabilmente anche sulla psicologia dei protagonisti. I quali, nel loro girovagare, continuano a perdersi, ritrovarsi per poi perdersi di nuovo, rimettendo ogni volta tutto la loro vita, anche artistica, in discussione.
Un sogno continuamente spezzato, dunque, dove fra i due tutto è in un continuo divenire del quale nessuno dei due riesce a seguire il passo. Occorrerebbe una seconda vita, come sembra suggerirci l’ultima scena del film, il tempo di una vita sola non basta. Un’ultima notazione romantica: Wiktor e Zula erano i veri nomi dei genitori del regista, ai quali il film è dedicato, e anche il loro fu un amore travagliato.
Lei si chiama Zula – Zuzanna – Susanna non Zona
Grazie per la precisazione. Un evidente e reiterato errore da correttore automatico su Word. Lo abbiamo ri-corretto.