di Davide Mannelli
Da zero a zero, ad Anno Zero. Si era già capito tutto, guardando in faccia Gian Piero Ventura. I suoi occhi persi nel vuoto, le sue espressioni bizzarre e inconcludenti, quasi da antico impiegato di un circo che non attirava più il suo pubblico. Era lui il primo a non credere nella qualificazione. Era lui il primo a non riuscire a trasmettere grinta e passione ai suoi stessi giocatori. E sopra di lui, ovviamente, i grandi capi della Federcalcio che gli hanno affidato le chiavi di una vecchia utilitaria, ormai consumata dal tempo e ingolfata da troppi chilometri.
E dire che era passato solo un anno e mezzo, dalla Nazionale che agli Europei francesi sfiorò le semifinali, arrendendosi solo ai maldestri rigori di due “sciagurati” del pallone, per dirla alla Brera, come Pellè e Zaza.
I giocatori erano più o meno gli stessi. La differenza, fra quella nazionale e quella che ieri ha sancito la sua morte sportiva, era tutta nell’allenatore. Gian Piero Ventura (GPV) non è Antonio Conte e lo sapevano tutti, sin dal principio. L’ex ct della Juventus era tutto il contrario, in meglio, del suo anziano collega: la passione, la grinta, il coraggio trasudavano dai suoi occhi e dalle sue scelte, mentre da GPV fuoriusciva solo arrendevolezza, confusione e presunzione.
Il punto più basso della sua poco titolata carriera, inutile dirlo, lo ha toccato ieri, privando la Nazionale italiana dell’unico talento purissimo che dispone tra le sue fila, quel Lorenzo Insigne che con la sua classe, la sua imprevedibilità, il suo modo di accarezzare il pallone ci avrebbe dato almeno una chance di affacciarci verso la Russia.
E invece no. Ancora una volta GPV si è specchiato nella sua mediocrità. Ha scelto Gabbiadini, un povero “gregario” tutto centimetri e poco altro, e ha ingabbiato ancora una volta Immobile in un’area troppo affollata.
Sul finire della partita, mentre le nubi si addensavano già sopra la storia del calcio italiano, Ventura ha preferito persino un acciaccato Belotti, pur di rinunciare a giocare a pallone. Una scelta masochistica che avrebbe raggiunto di lì a poco i suoi nefasti effetti.
Ieri sera si è consumato, inoltre, qualcosa di inedito e grottesco: un giocatore (De Rossi) per la prima volta non contento della propria “chiamata in campo”, perchè anche lui convinto che sarebbe stato meglio far giocare altri, indicando quel Lorenzo Insigne abbandonato in cantina, piuttosto che chiamare in causa sé stesso, un onesto ma rude tuttofare del centrocampo che non sarebbe servito a nulla.
E mentre la partita proseguiva, commentata dalla solita stanchezza prosaica dei telecronisti Rai e dalle improbabili incursioni di Zenga al commento, la minaccia diveniva sempre più triste realtà.
Erano più o meno le 22 e 40, quando la Nazionale di calcio alzava definitivamente le braccia in segno di resa e ritornava indietro di sessant’anni, abbandonando il sogno Mondiale come in occasione dell’appuntamento in Svezia, nel 1958. Quello che sarebbe stato il torneo di Pelè e di Garrincha, nomi così altisonanti che sembra persino blasfemo riportare all’interno di un articolo dedicato all’odierna compagine azzurra.
Ciò che si chiedono tutti, adesso, è scontato: da dove ripartire? Questo Anno Zero non dev’essere un’occasione sprecata, ma un’opportunità da non sprecare.
Bisogna tornare a puntare sui nostri vivai, troppo frequentemente “violentati” dai giocatori stranieri, e soprattutto bisogna puntare ciecamente sui pochi giocatori di talento di cui disponiamo.
Ancora una volta l’accento torna su Lorenzo Insigne, l’unico dell’era post-Baggio e ormai post-Cassano, che si possa avvicinare alla definizione di fuoriclasse. Potremmo contare su Donnarumma, che raccoglierà la pesante eredità di Buffon. Potremmo affidarci alla velocità di Florenzi, uno dei pochi convincenti nella serata di ieri.
Bisognerà, soprattutto, trovare il tecnico giusto.
Un tecnico che non sbuchi fuori, improvvisamente, per uno strano e sinistro incrocio di logiche imprescrutabili (è il caso di Ventura, ex allenatore di squadre come Bari e Cagliari, piombato quasi casualmente sulla panchina azzurra con zero tituli al suo attivo). Si fanno già i nomi di Ancelotti, di Allegri, di un Conte-bis. Non importa. L’importante sarà scegliere bene e ripartire da un progetto convincente.
E puntare su quel binomio, vivai-fantasia, che è l’unica vera risorsa in grado di poter far rinascere questa squadra.
Adesso l’Italia avrà di fronte nove lunghi mesi di deserto, un arco importante di tempo per ricostruire tutto con calma e senza frenesie. Vedrà in televisione questa estate le gesta di Messi, Neymar, Cristiano Ronaldo, e chissà che non impari qualcosa.
Poi, a settembre, quando ricomincerà un altro capitolo, quello per le qualificazioni
Zoom occhi di Gian Piero Ventura tratta da foto di Wikipedia. Di Вячеслав Евдокимов – fc-zenit.ru, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=38885600
Un articolo che avrei potuto firmare io. Un solo appunto: questa volta la rifondazione deve cominciare dalla governance del calcio a cominciare da Tavecchio