di Matteo Bavera
Un signore assai gentile si offre di depositare le nostre valige in quello che pensiamo essere il guardaroba, ma guardandolo meglio scopriamo una spirale di plastica che finisce nel suo orecchio, così ci ricordiamo che la Francia è sotto il tiro del Daesh (Isis) da diversi anni…
Nel bosco di Vincennes quasi nulla è cambiato dopo tanto tempo alla Cartoucherie, il Teatro magico di Ariane Mnouchkine, e neppure lei che si ostina a strappare i biglietti per l’ingresso del pubblico. Entrati precipitiamo nel suo mondo reinventato, di spettacolo in spettacolo, persino nella grande hall colorata che ci accoglie e rassicura.
Le maschere abbigliate da poliziotti indiani, si capisce quanto Mnouchkine conservi ancora le tracce del suo primo viaggio in sacco a pelo in quel paese che rimane mitico. Anche il cibo è indiano, come se l’esperienza dovesse coinvolgere tutti i nostri sensi, ma sarà con lo spettacolo, con il teatro, che questo miracolo si rivelerà compiuto. A volte entri in uno spazio teatrale ed è tutto già così bello e giusto, le dimensioni i colori l’aria il panorama umano. Una sala più ampia che profonda, stipata di pubblico dopo numerose recite, con un velatino bianco che ci separa tenuemente dalla scena, seduti il velatino cade e siamo in India, sussurra la mia accompagnatrice.
Subito si materializza la soluzione drammaturgica che guiderà l’intera serata: un telefono che squilla lungamente per qualcuno che fatica ad uscire da sotto le lenzuola. È Cornelia, la irresistibile Hélène Cinque (richiamo forse alla Cordelia di Re Lear o a Corneille) profuga dal teatro francese, chiaro alter ego della stessa regista, più volte costretta dalle emozioni all’utilizzo impudico del suo gabinetto a vista. Se uno va in India ed è francese è chiaro che verrà continuamente chiamato dal proprio Paese per trasmettere e ricevere suggestioni ed informazioni.
C’è una produzione da portare avanti in una imprecisata città indiana, senza le protezioni certe del ministero della cultura, forse in mano ad intermediari corrotti o vessati dalla censura, commissari zelanti dell’Institut Française che si giocano il posto sulla riuscita del progetto. Mnouchkine è sferzante nei confronti del sistema teatrale del proprio Paese, ma scioglie tutto in un’ironia che rimane corrosiva.
Nella camera convergono i tanti mondi cari alla regista: gli avvenimenti francesi dei terrorismi diventati quotidiani e, inevitabilmente, il pharmakos del teatro stesso che si incarna nelle epoche di Shakespeare e Čecov, tra gli altri. Mentre dalle finestre, magistralmente illuminate di luce solare e concreta, arrivano gli echi della grande manifestazione di Place de la République dopo gli attentati, il fumo le urla la rabbia e l’impotenza.
E se Shakespeare e Čecov riveduti da Stein e Strehler ci ricordano i maestri occidentali sulla direttrice del Théâtre du soleil, come possono mancare i suoi referenti orientali a lungo praticati? Il No, la Cina la Cambogia, l’Iran , l’Afganistan, la Siria… Che hanno segnato tutta la sua produzione, accanto alla nostra commedia dell’arte, primo amore, qui ben incarnata da un servo solerte e pasticcione di stampo goldoniano.
Da ognuno dei tanti paesi indagati, gli attori di Vincennes hanno riportato le innumerevoli tecniche che ne fanno un ensemble nomade e ricco di varianti espressive. Ma non può essere che l’India a irrompere ciclicamente nella camera, espulsa di volta in volta dallo squillare del telefono per legare le altre scene con il suo più sterminato poema, il Mahabarata, di cui qui si sta tentando una coproduzione internazionale. In questo scorcio risulta impressionante vedere gli attori, non solo francesi della troupe, entrare nei panni dei Re Pandavas e Kauravas con le tecniche vocali e fisiche della difficilissima arte totale del Kathakali, a recitare la morte di Draupadi, con cambi di scena veloci ma non semplici, affondati dentro la tradizione, come le musiche dal vivo, per voci e strumenti, di Jean Jaques Lemêtre da sempre abitante di questo teatro nel bosco.
La serata è talmente intensa, complessa e semplice anche per chi non conosce la lingua, che ci si lascia prendere da un vortice che toglie il respiro e costringe a prendere aria per qualche minuto, ad allontanarsi dalle prime file per cercare un maggior distacco e una pausa da quel flusso potente. Forse c’è un intervallo, ma sono appena entrate delle scimmie, sono uomini travestiti ma la loro agilità è tale da renderne reali i movimenti animali senza peso di gravità, dentro una performance fisica che ci restituisce l’odore dell’India.
Reduci da un recente viaggio a Pondicherry, distretto dell’India ed ex colonia francese, gli attori della Cartoucherie ci mettono a parte di una forma teatrale popolare che si tramanda da secoli attraverso una stessa famiglia. E’ il “Theru Koothu“, quasi un teatro-giornale che serve a tenere informati gli abitanti dei villaggi sugli avvenimenti e che qui ben si amalgama con la struttura drammaturgica del racconto, carico di informazioni sovrapposte e spesso tragiche, da cui occorre fuggire nel sogno: attraverso la cornucopia del teatro, verso le “Tre sorelle” russe o britanniche, che qui convergono a ricordarci la nostra fede nella scena, la medesima sensibilità mimetica della regista francese.
C’è ancora il tempo per una esilarante parodia sugli attentati recenti. Sette talebani kamikaze sbeffeggiati durante l’organizzazione dei propri ignobili crimini, schiavi di luoghi comuni sulle vergini che li attendono in paradiso ma ora da negoziare nel numero, sul denaro e su un presunto dio che li ispira. Nani da commedia dell’arte a ricordarci che il rischio è dove c’è il coraggio della denuncia, oggi in questo giorno che precede le elezioni in Francia con il Teatro apertamente schierato contro il Front Nationale.
Un omaggio causticamente comico come lo erano gli artisti trucidati di Charlie Hebdo. E infine un emiro, accompagnato da Gandhi, con le sembianze di Charlot, ma in bianco e senza bastone, a ripetere l’invettiva mancata sulla felicità e la dignità degli uomini. Da “Il grande dittatore” di Chaplin, opposto agli appelli al razzismo e alle guerre di Hitler, davanti a un microfono per piazze sterminate impazzite.
Il Teatro politico, fortemente politico, di Ariane Mnouchkine si è dipanato con dolcezza e forza dentro i nostri occhi. Difficile immaginare un’esperienza così completa e alta per un’artista a volte considerata superata, ma che con questa prova ha riconquistato la stima di tanti scettici colleghi e del pubblico. Un pubblico che non smette di applaudire e pestare i piedi per quei 40 attori a cui si aggiunge la regista, per l’ultima rappresentazione di questo anno teatrale. Rimpiangiamo che simili lezioni non giungano fino a noi, ma ci ripromettiamo il dovere di condurvi i nostri figli alla ripresa dello spettacolo, la prossima stagione.
L’uomo della gendarmeria ci riconsegna le nostre valige all’uscita con altrettanta cortesia, noi restiamo ancora un po’ lì attoniti e commossi. Ma l’autobus del teatro ci aspetta già per ricondurci a Parigi, sotto la pioggia come un lavacro.
Foto in copertina e nel testo, di Michèle Laurent