![](https://www.maredolce.com/wp-content/uploads/2016/01/Basile_spettacolo_Collova_Biondo_2013-e1453399991316.jpg)
di Gabriele Bonafede
(articolo del 6 Aprile 2013)
Al centro della scena c’è lei. Una lei multipla, multidimensionale, psichica, pervasiva: è Ophelia. Ma è anche la madre, la moglie, la presenza femminile e il ricordo della fine-e-non-fine certa che si propone, attraverso la metempsicosi, come vita oltre la vita, comunque e sempre centrale sul palcoscenico e nel percorso mentale di chi gli sta intorno. Per questo è al centro della scena e in primo piano nell’Ulysses di Claudio Collovà: una quarta protagonista insieme agli attori reali con Sergio Basile (nel ruolo di Leopold Bloom), Domenico Bravo (Stephen Dedalus) e Luigi Mezzanotte (nel triplice ruolo di Mulligan, Deasy e un cittadino).
![Domenico Bravo](https://www.maredolce.com/wp-content/uploads/2016/01/Domenico_Bravo_Spettacolo_Collova_Biondo_4-300x264.jpg)
Ophelia è una presenza quasi ingombrante, che si avvita nella coscienza e nello stesso spazio fisico e mentale dei protagonisti joyciani. Essi raccontano della loro solitudine e della loro incapacità a distaccarsi dalla presenza, dialogando spesso con un fantasma dal quale non ottengono risposta.
Regista dall’approccio raffinato e fortemente legato alla dimensione emotiva della rappresentazione, Claudio Collovà tratta, e anche ritratta, l’Ulysses, in una sequenza di riflessioni che aprono ulteriori vie e modi di lettura. D’altronde non poteva essere diversamente: una pietra miliare della letteratura europea, come l’Ulysses di Joyce, si presta a sensazioni e letture che chiedono la sublimazione teatrale. E Claudio Collovà, epigono della sublimazione che si fa scena, che si fa spettacolo teatrale totalizzante, riesce a rendere palpabile ciò che è difficilmente materico: lo stato mentale, lo stato psichico, la pittoricità della scena, le contraddizioni di pensiero, anima, ricordi, azioni, preconcetti e difesa di se stessi e del proprio retaggio.
Non a caso il preconcetto antisemita, raccontato in maniera così cruda e intima da Joyce, prende una parte rilevante dello spettacolo, soprattutto dove esso si distende in dialoghi anziché in monologhi. È chiaro che i monologhi, quali flussi di coscienza, sono anche loro al centro del percorso di Collovà in questa profonda lettura di Joyce, accompagnati dal mondo di oggetti e pensieri che incrostano e schermano la vita di Bloom come quella di Dedalus, opprimendoli senza dare vie d’uscita se non quelle dell’adagiarsi, dell’accettare nolenti o volenti l’ineluttabile imposto dalla società nella quale vivono: sfiniti dalle vicende personali dalle quali non riescono a uscire, finendo per non essere veri decisori delle proprie azioni, ma esecutori di uno scorrere anche misero della propria vita.
![Luigi Mezzanotte](https://www.maredolce.com/wp-content/uploads/2016/01/Luigi_Mezzanotte_Spettacolo_Collova1-300x174.jpg)
Uno dei momenti più coinvolgenti è quello del bagno turco, dove lo spettatore entra pienamente in scena, non solo grazie ai pregiati suoni dell’arrangiamento acustico-musicale di Giuseppe Rizzo ma anche attraverso l’olfatto: i vapori e I profumi del bagno turco emanano dal palco, attraggono lo spettatore che è quasi di forza portato anch’esso fin dentro il bagno insieme a Bloom, e dunque dentro la sua stessa psiche.
Là, Collovà e la densa interpretazione di Sergio Basile, riescono a mettere il proprio pubblico in aderenza completa con le sensazioni cerebrali, tattili, olfattive, del personaggio, come se fosse lui stesso, il pubblico, a trovarsi nella vasca d’acqua calda con i propri, angusti, pensieri, favoriti da un rilassamento a pagamento. E dunque da un rilassamento che rimane superficiale, ipocrita, come tutto ciò che vien fuori dall’impietoso mondo joyciano dell’Ulysses. Sergio Basile, con pochi gesti essenziali, lava il suo e il nostro corpo, dimenticando assieme a noi i nostri ricordi e tutto il mondo intorno, come succede al personaggio Bloom nel racconto di Joyce. Così come, leggendo le lettere della moglie, Basile-Bloom semplicemente rapisce: confonde il flusso dei sentimenti, emoziona, stordisce l’anima.
E ancora, scena madre, quella di Dedalus solo con la propria coscienza e il proprio dilemma, laddove Joyce incontra Shakespeare celebrando il bivio inevitabile di ognuno di noi a un certo punto della nostra vita. La sapiente interpretazione di Domenico Bravo riesce a trasferire l’identità del personaggio nella nostra identità personale. E soprattutto conferisce grande fisicità e presenza dirompente dall’inizio alla fine.
![Claudio Collovà](https://www.maredolce.com/wp-content/uploads/2016/01/Claudio_Collova_2.jpg)
La violenza antisemita, psicologica prima ancora che fisica, è efficacemente rappresentata e interpretata da Luigi Mezzanotte che riporta al presente l’antisemitismo viscerale di quei personaggi che popolavano l’Irlanda di Joyce e che partoriranno i diavoli scatenati del XX secolo europeo. Mezzanotte li fa rivivere, individualmente, uno per uno, in maniera così reale da farci rendere conto che anche il mondo di oggi è tuttavia popolato da portatori dell’odio di razza, di religione, d’opinione e d’appartenenza sociale. E fa scorrere un temibile brivido, purtroppo non ancora sopito nel nostro mondo globalizzato e cablato.
Sullo sfondo, nell’esperta e visionaria scenografia di Enzo Venezia, c’è quella biblioteca con i libri aperti, galleggianti nel vuoto, pronti a essere letti, decifrati, e che tuttavia richiedono l’elevarsi, il sublimarsi appunto, per poterli prendere, leggerli e capirli anziché semplicemente ammirarli. Così il racconto del confronto con la propria coscienza, sia essa personale o sociale, prende forza ancora una volta sulla scena come nel pubblico: la ricerca dell’elevarsi dalle miserie terrene, individuali o collettive, è una ricerca che si fa a fatica. Richiede uno sforzo, come quello di salire fisicamente sugli scaffali, sulla scala della psiche, sulla scala della sfera spirituale
![Basile_spettacolo_Collova_Biondo_2013_2](https://www.maredolce.com/wp-content/uploads/2016/01/Basile_spettacolo_Collova_Biondo_2013_21-300x199.jpg)
Travolti anche dalla cupa pittoricità che promana dall’apparato teatrale “olistico” di Collovà, e mutuamente favorito dall’arte figurativa di Venezia, evidente sin dall’installazione dell’Ophelia, il pubblico non può fare a meno di identificarsi, di sondare insieme ai personaggi e agli attori, presenti o non presenti, al ritmo dei suoni d’acqua. Questa riesce anche a farsi reale, liquida: come un passaggio a tappe dallo stato corporeo a quello etereo del dopo-morte.
Complice fondamentale di questo successo, oltre al lavoro corale di tutti i protagonisti, della regia e della scenografia, è lo straordinario impianto di luci e ombre, creato da Pietro Sperduti, che scolpisce a tutto tondo lo spazio scenico, mantenendo sempre viva l’attenzione e la riflessione del pubblico. Così com’è vitale il commento di musica e suoni stabilito da Giuseppe Rizzo, che raccoglie e catalizza tutti gli elementi, siano essi fisici o emotivi, sottolineando l’azione e il percorso vocale degli artisti così come quello di pubblico, personaggi e autore.
Di grande comunicatività e coinvolgente, lo spettacolo realizzato da Claudio Collovà sfianca e rapisce allo stesso tempo, raggiungendo l’obiettivo di dispiegare Joyce in tutta la sua tenebrosa potenza. È chiaro che un risultato di questo livello è anche merito della produzione del Teatro Biondo: ha reso possibile una ricerca approfondita che parte da lontano, con due precedenti tappe della trilogia di Claudio Collovà dedicata al grande capolavoro di Joyce.
Fotografie di scena di Ninni Annaloro.