di Massimiliano Di Pasquale
Ho conosciuto Zhadan nell’estate del 2007 a Kharkiv. L’incontro avvenne in Piazza Svobody, sotto la più grande statua di Lenin dell’intera Ucraina, rimossa poi nel 2015 in base alla legge sulla decomunistizzazione.
Serhiy Viktorovych, a trentatré anni, era già uno scrittore affermato con all’attivo diverse opere di poesia e narrativa, alcune delle quali tradotte anche all’estero. Ciononostante si dimostrò estremamente cordiale e privo di quel sussiego che spesso circonda i giovani talenti di successo in Occidente. Indossava una t-shirt blu scuro con il logo della BBC, un berrettino verde militare e aveva l’aria di un timido studente universitario. Non fu difficile rompere il ghiaccio. La comune passione per i Depeche Mode – così aveva intitolato un suo romanzo che sarebbe uscito anche in Italia due anni più tardi – diede il la a una piacevole conversazione che poi si trasformò in un’intervista, dal taglio decisamente pop, pubblicata sulle pagine di un quotidiano online.
Mi raccontò del suo amore per Kharkiv e per quell’enorme piazza, che seppur priva delle parate militari di un tempo, non smetteva di esercitare grande fascino non foss’altro per le sue dimensioni e perché lì Limonov, scrittore che ammirava, aveva ambientato alcuni dei suoi racconti. Ma soprattutto Zhadan mi raccontò della sua infanzia a Starobilsk, cittadina del Donbas dove aveva abitato fino a diciotto anni, prima di trasferirsi a Kharkiv e di come la sua famiglia, nonostante vivesse in una delle aree più russofone del paese, parlasse ucraino.
“Non è vero che nell’Ucraina dell’Est tutti parlano russo, è uno stereotipo!” mi disse.
Quelle parole mi colpirono molto e mi fecero riflettere. Qualche giorno più tardi, visitando Skovorodynivka, un villaggio nella regione di Kharkiv dove è sepolto il poeta e filosofo Hryhoriy Skovoroda, mi accorsi che anche lì molte persone parlavano ucraino. Capii allora che l’idea di un Est russofono e di un Ovest ucrainofono e di un Paese spaccato politicamente, culturalmente ed elettoralmente per via della lingua adottata era fuorviante. Ben più interessante era la dialettica città-campagna, visto che anche in molte aree rurali dell’Est la gente si esprimeva in ucraino o mescolava ucraino e russo in un idioma detto surzhyk. Zhadan non parlava ovviamente surzhyk, ma un ucraino eccellente come mi confermò una collega che mi aiutava con la traduzione.
Quando gli chiesi se si trovasse più a suo agio con la prosa o con la poesia mi rispose che non faceva questa distinzione dal momento che – a suo dire – i due linguaggi appartenevano allo stesso universo. Il suo amore per la musica rock lo aveva già portato a sperimentare con i musicisti della scena underground di Kharkiv, in particolare con la band Luk, contaminazioni tra poesia e musica di cui andava fiero.
Non ci trovammo in dissenso neanche su Limonov. Zhadan infatti precisò che gli piaceva come scrittore, ma non condivideva affatto le sue posizioni politiche anti-ucraine. La situazione politica dell’epoca era molto diversa da quella attuale, nessuno avrebbe mai immaginato che sette anni più tardi la Russia avrebbe invaso militarmente la sua ex repubblica sorella.
Prima di salutarci gli chiesi quale fosse il suo album preferito dei Depeche Mode. Rispose Songs of Faith and Devotion, il disco della band di Basildon che anch’io avrei portato con me sulla fatidica isola deserta.
Due anni dopo scoprii con un certo stupore che nel suo libro, a dispetto del titolo, dei Depeche Mode non si parlava quasi mai. La copertina scelta per l’edizione italiana, in cui una falce affilata faceva sanguinare una rosa rossa molto simile a quella presente sulla cover diViolator, il disco più celebre del gruppo britannico, poteva generare qualche equivoco semantico. Nell’opera di Zhadan infatti non vi era traccia delle atmosfere noir, in bilico tra peccato e redenzione, delle canzoni scritte da Martin Gore che la rosa sanguinante sembrava suggerire.
Ma gli affreschi acidi “viscidi e urticanti come una limonata versata sul parquet” che scaturivano dalle sue pagine sporche mi piacquero. Depeche Mode era un romanzo autobiografico che raccontava la cultura underground di Kharkiv intorno al 1993.
Nel libro si parlava di piccoli crimini, sbronze, partite di calcio…
La Kharkiv di Zhadan era molto diversa da quella che avevo conosciuto nei miei primi viaggi in Ucraina degli anni Duemila. Mancavano i colori pastello degli edifici liberty della Pushkinska e della Sumska, le due eleganti vie del centro in cui avevo trascorso pomeriggi interi a scattare fotografie dopo un’indigestione di palazzi costruttivisti e di architettura socialista. D’altronde il colore dominante di quegli anni, il colore che avvolgeva non solo Kharkiv ma tutta l’Ucraina di Kravchuk, era il grigio.
Sono passati più di dieci anni da quell’incontro. Oggi Zhadan è lo scrittore ucraino contemporaneo più famoso al mondo, l’Ucraina attuale è molto diversa da quella degli anni Duemila e a chi scrive è toccato l’onere di raccontare agli italiani, bombardati dalla dezinformatsiya russa, cosa stia realmente succedendo nell’ex granaio dell’URSS.
L’ultimo lemma di Abbecedario Ucraino, saggio in uscita per Gaspari editore nel prossimo mese di giugno, è dedicato proprio a Zhadan.
Zhadan è diventato infatti una delle icone dell’Ucraina del post-Maidan.
Nel marzo 2014 lo scrittore di Starobilsk fu brutalmente pestato da teppisti filo-russi che prendevano d’assalto il palazzo dell’amministrazione regionale di Kharkiv per issarvi la bandiera russa. Erano i giorni convulsi del Maidan. L’ex Presidente Yanukovych aveva abbandonato il Paese e il Cremlino, che aveva già occupato militarmente la Crimea, stava inviando suoi uomini in molte aree dell’Ucraina orientale per arrestare l’onda democratica del Maidan. Autobus provenienti dalla Russia, Kharkiv dista pochi chilometri dal confine con la Federazione, avevano trasportato nella seconda città dell’Ucraina centinaia di teppisti russi armati di mazze da baseball.
Zhadan, che faceva parte del gruppo di manifestanti democratici e filo-ucraini, fu colpito alla testa e al volto perché si era rifiutato di inginocchiarsi a baciare la bandiera russa.
Le sue foto con il volto grondante di sangue fecero il giro di tutto il mondo mettendo in apprensione molti.
Ricoverato all’ospedale, se l’era cavata con un trauma cranico, varie ferite alla testa e una sospetta frattura del naso.
“Non voglio vivere in un paese di corruzione e ingiustizia. La dittatura non è una cosa normale e le persone che non protestano non hanno futuro” scrisse Zhadan in una mail spedita, alcuni giorni dopo l’accaduto, dall’ospedale.
Allora non poteva immaginare che la sua terra d’origine il Donbas, cui aveva dedicato nel 2009 il romanzo Voroshylovhrad (pubblicato in Italia da Voland nel 2016 con il titolo La strada del Donbas), sarebbe stato teatro di un sanguinoso conflitto orchestrato dal Cremlino e che quella tragica esperienza, non ancora conclusa, avrebbe finito per permeare, seppure in forma allegorica, le sue opere future.
Mesopotamia, libro in uscita in Italia nelle prossime settimane per Voland, che verrà presentato dallo stesso Zhadan al Salone Internazionale del libro di Torino 2018, è la prima opera scritta a guerra già iniziata. Secondo capitolo di una trilogia che comprende Voroshylovhrad (2009) e Internat (2017), Mesopotamia è un romanzo ad episodi la cui struttura ricorda da vicino un libro culto della letteratura italiana, Altri Libertini di Pier Vittorio Tondelli. L’unica differenza è che, rispetto all’opera tondelliana, il testo dello scrittore ucraino comprende anche trenta componimenti poetici, collocati alla fine del lavoro.
Come fa notare Giovanna Brogi nella postfazione i nove “racconti costituiscono ciascuno una struttura narrativa autonoma e possono essere letti singolarmente. I personaggi sono però gli stessi, si differenziano da un racconto all’altro perché assumono di volta in volta il ruolo di protagonista, attore secondario o anche di pura comparsa”.
Rispetto all’opera precedente La strada del Donbas, Mesopotamia ci riporta alle ambientazioni urbane care allo scrittore ucraino. Va da sé che l’atmosfera che si respira a Kharkiv nel 2015 è molto diversa da quella ritratta in Depeche Mode, romanzo ambientato nel 1993. I personaggi di questo romanzo pop-picaresco, che talvolta sconfina nei territori di un realismo magico più caucasico che sudamericano, appartengono a un’umanità bislacca senza punti di riferimento alla disperata ricerca della felicità.
I temi del sesso e della morte sono più presenti che in passato. Le figure femminili spesso sovrastano per forza e determinazione quelle maschili, cosa che non sorprende affatto chi conosce la cultura matrilineare ucraina.
Gli affreschi dedicati alla città sono tra le pagine più potenti di un romanzo malinconico, mai disperato. Kharkiv, attraversata da due fiumi, come l’antica regione della Mesopotamia splende grazie alla prosa poetica e immaginifica di Zhadan.
“Il sole penetrava la nebbia e la città cominciava a inondarsi di luce, voci e rumori, svegliandosi e facendo svanire i sogni. La città sorgeva sulle colline fra due fiumi, lambita dalle correnti sui due lati. Nella vallata che si apriva in basso si vedevano già i primi edifici degli operai e le scuole dei loro figli, i neri muri degli ospedali dov’erano ricoverati i lebbrosi, il bianco della calce che ricopriva la prigione dov’erano rinchiusi i ladri e i pazzi. Dietro si estendevano i capannoni delle fabbriche di trattori e carrarmati, le chiese non canoniche che era proibito costruire nella città alta, le scie nere delle piste di volo dell’aerodromo e i campi coltivati a papaveri che appartenevano ai monasteri femminili.”