di Anna Fici
Ho conosciuto Tony Gentile. Lo avevo già incontrato altre volte ma solo fugacemente. Un paio di sabati fa, invece, grazie all’invito dell’Associazione ACSI Matteotti Palermofoto, ho potuto chiacchierare a lungo con lui che, visibilmente, era felice di trovarsi lì tra amici e di raccontarsi.
Un pomeriggio trascorso nella più totale rilassatezza e informalità, tra i frequentatori abituali di questa associazione, i cui fondatori, i fratelli Salvo e Dodo Veneziano, pare siano stati i primi, oramai un po’ di anni fa, ad organizzargli una mostra a Palermo, prima che decollasse pienamente nell’attività di photoreporter.
Mostrando ai convenuti il proprio lavoro, ha raccontato i retroscena di molti suoi scatti – i tre ultimi Papi ritratti in modo da mettere in risalto le loro differenze di carattere, Obama a colloquio con Papa Francesco, la Costa Concordia inclinata davanti all’isola del Giglio… – ponendo l’accento sul mestiere/dovere di informare.
Lo ha sempre messo al primo posto, senza mai attribuirsi intenti interpretativi perché, dice lui, ciò che è chiamato a fare non prevede interventi evidenti dell’autore. Dal 2003 lavora stabilmente per l’agenzia Reuters, per la quale ha realizzato innumerevoli servizi. Nel suo raccontare e raccontarsi, ha più volte posto l’accento sul rapporto tra cronaca e Storia. Ed è ovvio che un fotografo con i suoi trascorsi rimanga colpito da come l’apparente vita spicciola possa trasformarsi in Storia, avendo egli realizzato una foto di quotidiana vita lavorativa divenuta Storia, icona e simbolo.
Mi riferisco naturalmente alla notissima foto di Falcone e Borsellino ritratti in affettuose chiacchiere appena due mesi prima del primo attentato. Quella foto ha girato il mondo. Comitati spontanei e associazioni se ne sono appropriati per farne il simbolo dalla loro appartenenza al mondo dei buoni, al mondo della legalità, dell’antimafia, della non violenza. Ma la fama di questa foto ha oscurato il suo autore. Un autore timido e discreto che del periodo della “grande guerra di mafia”, molto più di quello ha raccontato, come testimonia il libro (“La Guerra”, edito da Postcart) uscito nel 2015.
Mostrando di considerare la fotografia un atto di felice e consapevole subordinazione al reale, ai fatti, alla vita, Tony Gentile non ha mai messo avanti se stesso e proseguendo sulla scia della discrezione e della timidezza, durante quell’incontro non ha portato copie del suo libro e non ne ha nemmeno parlato. Ma quel libro, voluto fortemente dal suo curatore Giuseppe Prode, esiste e vale. Ed è stato proprio l’incontro presso Palermofoto a farmi tornare la voglia di parlarne.
Lo avevo fatto brevemente all’interno del mio blog appena prima del suo lancio, avvenuto all’interno delle carceri dell’Ucciardone a Palermo circa un anno fa.
All’unisono, fotografie e testi – un toccante racconto di Davide Enia – rendono giustizia di un sentimento maltrattato dall’audience, dalla retorica, dal clamore e strumentalizzato dalla politica: il sentimento di essere a lutto, invischiati nel sangue come una mosca che è caduta dentro la pozza lasciata a terra da un morto “sparato” e che non riesce più a volare, e contemporaneamente compenetrati nel dovere della dignità e della distanza. Bloccati, in un caso e nell’altro, in uno stato che non lascia arrivare il pianto.
Chiunque abbia vissuto a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo ha familiarità con quelle immagini e con quei sentimenti. Ma finché non li ripercorre lungo le pagine de “La Guerra”, non riesce a percepire a pieno che la cronaca può contenere la Storia. Non soltanto perché consta di fatti importanti e determinanti, ma perché a raccoglierli c’è la straordinaria sensibilità di qualcuno, appunto Tony, che li ha inquadrati guardandoli con il cuore della gente e restituendo alla gente l’immagine della sua paura, della sua rabbia, della sua morbosità, del suo bisogno di silenzio.
È questa l’operazione che magicamente crea una storia comune, la Storia in cui ci riconosciamo. È il fotografo intellettualmente onesto che sceglie, in un attimo e in coscienza, di che cosa sarà fatta la coscienza comune e cosa resisterà al logorio del tempo e della distrazione organizzata.
Molte cose mi piacciono di questo volume. Soprattutto la presentissima assenza del suo autore che di fronte a ciò che ha vissuto ha fatto un passo indietro ma che, invece, trasuda partecipazione in ogni scelta, in ogni inquadratura, in ogni sguardo che ha colto. Mi è piaciuta la scelta di presentarlo a suo tempo all’Ucciardone.
Perché la storia comune è in comune anche con molti detenuti, forse cresciuti nei nostri stessi quartieri, forse dotati come noi di sentimenti complessi e ambivalenti.
La mafia è stata raccontata e fotografata da molti. Molte le fotografie divenute icone del nostro tempo. Tony dice di averne scattate molte con inconsapevolezza, cogliendone pienamente il senso soltanto dopo. Io non credo. Perché la grande fotografia sta nella qualità della presenza, nell’esserci, nell’attenzione, nell’impegno, che producono sempre buoni frutti.
E, riguardo alla sua foto più famosa, quella di Falcone e Borsellino piacevolmente insieme che si parlano in un mezzo sorriso, ecco… mi piace pensare che se Tony ha scelto di bloccare quel momento in sé e al momento in cui lo ha fatto senza alcuna spettacolarità o eclatanza, lo abbia fatto perché si rispecchiava nell’idea che si può lavorare, fare il proprio duro dovere con un sorriso, con il piacere della propria responsabilità.