di Matteo Bavera
Non è la prima volta che Warlikowski incontra Isabelle Huppert, l’attrice “fetiche” di tante pellicole colte d’oltralpe che, con il cinema, coltiva da anni una presenza costante sulle scene più importanti e celebrate di Parigi. Adesso li ritroviamo assieme all’Odéon di Parigi.
Qualche anno fa avevamo visto una non perfetta messinscena di “Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams. Questa volta è il desiderio stesso, nelle sue forme più estreme, a rappresentare la struttura stessa della messinscena e delle sue drammaturgie.
E in questa prova, sembra che Warlikowski abbia perso ogni timore reverenziale per la diva, visto che conduce la sua estrema bravura nei meandri di un personaggio dalle mille ipotesi e necessità mimetiche, guadagnandone la sua adesione e consenso totale. Da sempre il regista polacco rimaneggia pesantemente i testi che incontra, ricavandone materia per una lettura teatrale sempre più profonda e spiazzante, attuale e a volte futuribile. Quindi in queste sue “Fedre” ci sono almeno tre autori evidenti, e più nascosti Seneca e Racine.
Si principia con il libanese Wajdi Mouawad, classe 1968, di casa in Francia. Nello spettacolo, scandito da una serie di stazioni a lui tocca la parte della bellezza, “Beauté” e dell’Inocenza di cui ci informano una serie proiezioni. Una strepitosa attrice/cantante di origini tunisine interpreta in arabo un pezzo dal titolo preveggente “Les ruines”.
Dentro la voce cavernosa e graffiante di Norah Krief, anche attrice nella parte di Œnone, accompagnata dal vivo da una chitarra elettrica, danza l’attrice/danzatrice a cui spesso Warlikowski ha chiesto di rappresentare la rovina e la gloria dell’universo femminino.
È Afrodite che ha condannato Fedra?
La deliziosa e ieratica Rosalba Torres Guerrero forse qui diventa una fatale Ishtar, dea dell’amore, della fertilità e dell’erotismo, ma dea pure della guerra, nella mitologia babilonese.
Le due donne sono insieme uno choc di erotismo e desiderio da mille e una notte, trasportate in una equivoca sala da ballo di Beirut, dove si perde la purezza di Ippolito. Non a caso è lo stesso attore che interpreta un peloso cane, sacrificato, prima di lui, sul letto incestuoso di Fedra, come desidera e procura la Dea dell’amore.
Il desiderio amoroso, la cui vergogna è intollerabile preso Euripide diviene qui inevitabile necessità luccicante, come il significato stesso del nome Fedra. La prima morte di lei è per impiccagione dentro una sala da bagno.
Sarah Kane, tra le autrici preferite da Warlikowski, scrive la seconda parte, forse un richiamo al senso dell’innocenza che si realizza con la massima amputazione di se stessi, immaginato dalla autrice suicida a 28 anni. Warlikowski l’aveva già sperimentata, spaventandoci in “Cleansed” . Qui è sopravvissuta la dissipazione che è tutta di Ippolito, come se il suo destino non gli lasciasse scampo alcuno verso il desiderio, che degradarsi alle forme più estreme ma purificanti del vizio.
Fedra non può che attendere al suo fascino e alla sue volgarità da erotomane feticista, unica uscita di sicurezza per il destino del figlio di Teseo.
È la legge fatale del desiderio che guida questa sequenza di porte che Warlikowski prova ad aprire verso l’abisso. Qui Fedra è pronta a tutto, dalla Fellatio allo sventramento.
Consumato il desiderio Fedra è come espulsa dalla gabbia sessuale di Ippolito , il racconto di un altro incesto con la figlia Strophe, vittima a sua volta di Teseo non può che condurla a una seconda impiccagione appesa alla doccia di un’altra toilette.
In uno spettacolo che diventa una sorta di tavola di anatomia del desiderio femminile, appare plausibile che dagli spazi regali o gli hotel 5 stelle ,passando attraverso le consuete sale da bagno di deserti di luce giallastra, cangianti come geroglifici, approntati dalla sorprendente, complessa ed efficace sobrietà della scena di Malgosia Szczçsniak, improvvisamente e sorprendentemente si venga precipitati in una sala conferenze dove si dibatte di desiderio. E questa volta in chiave psichiatrica, dal testo “Elizabeth Costello” del geniale autore sud africano J.M. Coetzee.
E a questo punto che il genio attoriale di Isabelle Huppert tocca il sublime. Lei eroina infoiata di tutte le epoche, in abiti di oggi ma così tuffata nel mito, diventa un’isterica studiosa di alienazioni. Da cui, le immagini di Jessica Lange nel famosissimo film “Frances”, dove la star hollywoodiana viene sottoposta, dentro una clinica psichiatrica, a inimmaginabili e censurate torture sessuali.
Forse ultima chiave di lettura per la Fedra di Warlikowski, sottoposta alla catastrofe e alle torture dall’invidia divina per il desiderio umano.
Resta da dire che la Huppert è sublime nell’indossare tutte queste maschere fino a quella più offensiva e insultante per una parte dei francesi, la Fedra, ora sì di Racine, “jouée” senza le tracce enfatiche del verso alessandrino con la distanza e la semplicità di una massaia francese mentre fa la spesa.
La Huppert non è però sola perché con lei spicca la bravura degli attori polacchi Andrzej Chyra e Agata Buzek perfetti nel loro francese non materno, le già citate Norah Krief e la Guerrero, e i due attori di colore, il giovanissimo Gael Kamilindi (primo Ippolito) e Alex Descas, Teseo. Formidabile la colonna sonora di Pawel Mykietyn e il flauto arabo di Sebastian Wielandek. Impeccabili e necessarie la drammaturgie delle luci di Felice Ross e le immagini di Denis Guèguin.
Phèdre(s), di Wajdi Mouawad, Sarah Kane, J. M. Coetzee. Regia: Krzysztof Warlikowski. Scene Malgorzata Szczçsniak con Isabelle Huppert, Agata Buzek, Andrzej Chyra, Alex Descas, Gaël Kamilindi, Norah Krief, Rosalba Torres Guerrero.
Odéon-Théâtre de l’Europe Parigi, fino al 13 maggio.
Foto di Denis Guéguin e Pascal Victor.