di Gabriele Bonafede
Dopo la fatica, anche psicologica, nel realizzare un incantevole quanto concreto documentario sulla vita dell’amico Franco Scaldati, Franco Maresco ne ha affrontata un’altra, forse anche più dura e viscerale, ma ugualmente cucita nello spasso più diretto. Perché se il documentario è come un essere che vede e provvede nella poetica di Maresco-regista, il teatro è la prova corporale, la messa a nudo, il buttarsi a coraggio lirico nella cavità senza fondo della creazione.
Non stupisce, dunque, che con “Tre di Coppie”, in questi giorni al Teatro Biondo, Franco Maresco proponga un partecipe viaggio nel profondo pozzo di spontanea teatralità palermitana, mediata e suscitata dall’estrema sensibilità e prolificità dell’altro Franco con ilarità dispensata a piene mani. Da regista di teatro, Maresco non si tira indietro nel rappresentare alla sua maniera: è ciò che l’immenso mondo d’inventiva dell’autore si fa scena in termini di testi e atmosfera.
Ed è forse più l’atmosfera, il sogno e l’incubo, la luna e la notte, l’allegria e la dissacrazione, che emergono dal matto pozzo popolare della strada palermitana. Sono tirati fuori ad uno ad uno i versi e i gesti, le facce e le maschere, i duetti e le passioni come se fossero secchi che salgono con la loro corda e, invece d’acqua, raccolgono dal pozzo i segmenti del sognare. Che si manifestano anche in meraviglie isolate: quelle del mago che le tira fuori dal cappello di fronte al pubblico.
Se con questo fare, a tratti, si rischia di perdere la fluidità nella poesia di alcuni testi di Scaldati, di contro è magnificato il punto, l’anima inconscia, non solo onirica ma anche materiale con annesso divertimento. Scurrilità e insulti da stadio finiscono al contempo per sublimarsi in metrica. E in questo è fondamentale la scelta poliedrica del trio di attori che rappresenta “Tre di coppie”: Melino Imparato, Gino Carista e Giacomo Civiletti.
Così Imparato, attore immerso nel fluire poetico di Scaldati persino nella voce e nei movimenti, ne rappresenta l’esegesi più alta. Carista ne è la concreta maschera popolare, la forma intima, lo sberleffo del cantore persino quando è muto. E Civiletti ne è il materiale peso specifico, la presenza, l’ordito teatrale sulla scena. Al centro temporale della rappresentazione i tre raggiungono l’equilibrio emotivo che ci riporta all’infanzia, lavandola con l’umore senza accorgersene. Oppure sì. La lacrima è sempre una finestra su noi stessi che va accettata, così come la risata.
In mezzo c’è la Luna in proiezione sognatrice, il palese richiamo alla cinica “maniera” del Maresco cinematografico. Illuminata dai sogni di Scaldati, la luna in proiezione centrale rispetto al pubblico raccoglie e racconta illusioni e realtà della Palermo aranci in tierra: il Muto e il Corto, il Topo e il Gatto, l’eterna oppressione, eppure ispirazione, sulla vita e sulle pietre. Ma anche le proiezioni della terra che si fa finestra con le domande e le risposte di Totò e Vicé aperte all’infinito: “Se apro gli occhi vedo un pezzo di mondo, se li chiudo vedo il mondo intero. Com’è stu fatto?”.
Il racconto in dormiveglia di “Tre di Coppie” è la Palermo dove i sadici di turno s’accaniscono sulle vittime di se stesse, con lo sfottò più basso e scurrile, da dove nascono fiori concimati dalla disperazione di una città dall’autolesionismo tanto conclamato quanto irresistibile: “Mutu, calati i coirna ca passa l’apparecchio”, “ghghhg” “Mutu, ma picchì ‘un parli?”. E le minchie chilometriche rappresentate nel visibile, con un’abballata che traduce in siciliano le piroette di sesso maschile del Jan Fabre, diventano il boomerang al sadico stesso, al mafioso o quaquaraquà, a coloro che vorrebbero ridicolizzare e umiliare e invece sono bersagli inconsapevoli in fondo al pozzo.
Dunque è Franco e Franco: un dialogo che continua, grazie anche a all’invidiabile coerenza di Maresco, fino in fondo portatore della sua geniale sublimazione della monnezza a prospettiva artistica. E quindi è pure Franco è Franco, ovvero: dove il ventre creativo dei due amici si confonde al centro della Luna. E che, un giorno, seppellirà il mondo con un raggio di risata.